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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Riccardo VENTURI              (IT)

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RICCARDO VENTURI

Ha detto il fotografo di guerra Larry Burrows: “Spesso mi domando se ho il diritto di approfittare del dolore degli altri. Ma quando cerco una giustificazione mi dico che se posso contribuire anche in minima parte alla comprensione di quello che gli altri stanno vivendo, allora c’è una ragione per farlo”. Il fotoreporter si riferiva agli orrori della guerra in Viet Nam, ma il dilemma morale potrebbe estendersi fino a interessare l’intero orizzonte del lavoro di un fotografo. Tuttavia confondere il senso della fotografia con il senso della cosa fotografata è il malinteso concettuale di fondo di molte riflessioni sinora applicate a sostegno di un’interpretazione della fotografia. Il nodo da sciogliere dunque è il rapporto del ruolo testimoniale del fotografo alla luce delle complicazioni e delle ambiguità di un messaggio che, se privo della necessaria “distanza”, si carica di componenti estranee che sconfinano nel compiacimento di uno stupore mediatico quando non in vere accuse di propaganda. Dietro ogni obiettivo però c’è l’uomo, e non dubitiamo sulla sua carica emotiva, la cui cifra del “sensibile” è direttamente proporzionale al dramma di cui si è testimoni. Testimoni, appunto, non responsabili; e sul banco degli imputati la Storia vuole il colpevole non il teste.  Un fotoreporter Italiano capace di tenersi equidistante tra il fotogiornalismo testimoniale, nudo e crudo, e una partecipazione emotiva che noi avvertiamo in ogni suo scatto, è senza dubbio il fotografo romano Riccardo Venturi. Grazie al suo reportage ad Haiti (confluito in un lavoro dal titolo ‘Haiti Aftermath’), all’indomani della terribile scossa di terremoto che ha squassato il paese, apprendiamo ad esempio un nuovo capitolo di una lezione di cui siamo a conoscenza e cioè che alcune disgrazie naturali lo sono di più a seconda della posizione geopolitica nelle quali avvengono. In questa affermazione risuona sgomenta l’indifferenza data dalla distanza dal nostro mondo: più una tragedia è prossima a noi e più ne siamo coinvolti emotivamente; contrariamente non riusciamo a coglierne in pieno la portata. Eppure, come ci mostra Riccardo Venturi, il dramma di Haiti è del tutto simile a quello causato da ogni terremoto avvenuto alle nostre latitudini. Sono identiche le scene di distruzione, le macerie; simili i volti atterriti dei sopravvissuti; uguali i cadaveri; gli stessi sono gli occhi smarriti in cerca di un motivo per sperare (nella prima fotografia si vede proprio questo: un volto scavato e attonito, segnato dal terrore mentre guarda un punto invisibile cui domandare una risposta che non arriva). Qual è dunque l’apporto di un fotoreporter ai luoghi di distruzione? Qual è il suo compito in un luogo che ha bisogno di tutto ma dove tutto manca? Descrivere la tragedia. Narrare e narrare, perché l’informazione arrivi sino a noi nella sua ordita completezza di tragedia, perché scuota le coscienze, perché mobiliti la nostra solidarietà attraverso uno storytelling che non può essere lasciato in mano ai fotoamatori – i soli ad amare le immagini shock – e infine il più nobile e alto degli obiettivi: lasciare che la cronaca diventi Storia. Fin qui i disastri naturali, raccontati da Venturi con grande sensibilità. Non meno discreto è stato il suo occhio in quell’inferno vivente causato dall’uomo che è divenuta la Libia. Qui la morte è selettiva e ancora più insensata – ammesso che la morte abbia un senso. Nel suo ‘Chaos Lybia’ (di cui qui vediamo alcune immagini) ancora una volta Venturi ci mostra gli “effetti” del dramma, le conseguenze indesiderate, le vittime sotto ogni forma, senza escludere nulla. Vediamo gli artefici della guerra, gli attori, con tanto di mitragliatrici pronte a dispensare morte; la devastazione urbana con quale i giovani sono obbligati a dialogare; la visita a un defunto in un cimitero islamico – con ogni probabilità vittima innocente del massacro; i volti del dolore attonito. Il solco in cui Riccardo Venturi muove il suo lavoro è saldamente nella tradizione: vediamo gli inconfondibili tratti di Natchwey, di Burrows, di McCullin, di Smith, Chim e di ogni altro fotoreporter che non sa e non può resistere dal raccontare una guerra. Ma i conflitti raccontati da Venturi sono asimmetrici, inusuali, nuovi per portata e sviluppo, mentre solo al dolore è dato d’essere antico e crudele e in questa “crisi” il suo obiettivo è compassionevole e “partecipe”, laddove per una partecipazione intendiamo – come intende sicuramente Venturi – l’azzeramento della distanza emotiva tra i soggetti interessati e un obiettivo “caldo”, vicino, in grado di comunicare, senza nulla omettere, l’insensatezza della sofferenza causata dall’uomo sull’uomo. Si è detto che la prima vittima di una guerra è la verità. Forse è vero, ma fintanto il lavoro del fotoreporter sarà svolto con onestà e partecipazione il rischio è scansato e noi avremo bisogno di un buon racconto che ristabilisca una trama. Questo è il lavoro di Riccardo Venturi, tra i migliori fotoreporter italiani. Con sicurezza.

 

Giuseppe Cicozzetti

da “Haiti Aftermath”; “Chaos Lybia”

 

foto Riccardo Venturi

War photographer Larry Burrows said: "I often wonder if I have the right to take advantage from other people’s pain. But when I look for justification I tell myself that if I can contribute even a small part to understanding what others are experiencing, then there is a reason to do it." The photojournalist referred to the horrors of the war in Viet Nam, but the moral dilemma could extend to affect the entire horizon of a photographer's work. However, confusing the sense of photography with the sense of the photographed thing is the underlying conceptual misunderstanding of many reflections applied so far to support an interpretation of photography. The knot to be solved is therefore the relationship of the testimonial role of the photographer in the light of the complications and ambiguity of a message that, without the necessary "distance", is loaded with foreign components that encroach on the pleasure of a media wonder when not in real propaganda accusations. Behind every lensl, however, there’s a man, and we do not doubt his emotional charge, whose "sensitive" figure is directly proportional to the drama we’re witnessing. Witnesses, in fact, not responsible; and in the dock of the accused the History wants the guilty not the heads. An Italian photojournalist able to keep himself equidistant between the testimonial photojournalism, naked and raw, and an emotional participation that we perceive in every shot, is undoubtedly the Roman photographer Riccardo Venturi. Thanks to his reportage in Haiti (merged in a work entitled 'Haiti Aftermath'), in the aftermath of the terrible earthquake that has shaken the country, we learn for example a new chapter of a lesson that we are aware of and that is that some natural disasters are more depending on the geopolitical position in which they occur. In this affirmation the indifference given by the distance from our world resounds dismay: the more a tragedy is close to us and the more emotionally we are involved; on the contrary we can not fully grasp the scope. Yet, as Riccardo Venturi shows us, the drama of Haiti is very similar to that caused by every earthquake that took place in our latitudes. The scenes of destruction, the ruins are identical; like the terrified faces of the survivors; the corpses are the same; the same are the lost eyes looking for a reason to hope (in the first picture we see just this: a face dug and astonished, marked by terror while looking at an invisible point to ask for an answer that does not arrive). So what is the contribution of a photojournalist to the places of destruction? What is your task in a place that needs everything but where everything is missing? Describe the tragedy. Narrating and narrating, so that information reaches us in its orderly completeness of tragedy, because it shakes the consciences, because it moves our solidarity through a storytelling that can not be left in the hands of amateur photographers - the only ones who love shock images - and finally the noblest and highest of objectives: to let the chronicle become History. So far the natural disasters, told by Venturi with great sensitivity. No less discreet was his eye in that living hell caused by the man who became Libya. Here death is selective and even more senseless - if death makes sense. In his 'Chaos Lybia' (of which here we see some images) once again Venturi shows us the "effects" of the drama, the unwanted consequences, the victims in every form, without excluding anything. We see the master of war, the actors, complete with machine guns ready to dispense death; urban devastation with which young people are forced to dialogue; a visit to a deceased in an Islamic cemetery - in all probability an innocent victim of the massacre; the faces of astonished pain. The path in which Riccardo Venturi moves his work is firmly in the tradition: we see the unmistakable traits of Natchwey, Burrows, McCullin, Smith, Chim and any other photojournalist who does not know and can not resist telling a war. But the fights recounted by Venturi are asymmetrical, unusual, new in scope and development, while only pain is given to be ancient and cruel, and in this "crisis" his lens is compassionate and "participatory", where we intend to participate. - as Venturi undoubtedly means - the elimination of the emotional distance between the subjects involved and a "hot" lens, close, able to communicate, without omitting anything, the senselessness of the suffering caused by man on man. It has been said that the first victim of a war is the truth. Maybe it's true, but as long as the photojournalist's work is done with honesty and participation, the risk is avoided and we'll need a good story to re-establish a plot. This is the work of Riccardo Venturi, one of the best Italian photojournalists. Definitely.

 

Giuseppe Cicozzetti

from “Haiti Aftermath”; “Chaos Lybia”

 

ph. Riccardo Venturi

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