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SCRIPTPHOTOGRAPHY
Egon TOPO (Italia)
EGON TOPO
Non c’è azione creativa che non sia generata da tensione e tormento, e in assenza di questi due stati d’animo non c’è attività artistica che possa dirsi completa. Smettere di tormentarsi, ha detto Emil Cioran, è cadere nel menefreghismo dei morti; ed è per sentirsi vivo che l’uomo accarezza il tormento, per entrare in se stesso, per conoscersi in profondità: l’uomo si osserva negli abissi degli abissi, cerca la sua immagine nello specchio deformante e oscuro del proprio malessere, e non c’è lotta che sia più estenuante e vera della conoscenza. La fotografia, una volta superato il limite della rappresentazione ex materia, ha affrontato la sfida dell’irriproducibile, della solitaria evanescenza del dolore introiettando metaforicamente il suo obiettivo nelle viscere dell’uomo, fin dentro le sue carni, nella segretezza dello scontento. Un gesto rivoluzionario che è insieme un altro tassello verso la conoscenza e la rappresentazione del malessere. La serie “Bac(ON)me” del milanese Egon Topo esplora con crudezza e onestà il travaglio emotivo dell’esistere. Il titolo ci rivela subito come il lavoro sia un doveroso omaggio al grande pittore irlandese Francis Bacon. Ma per quanto si è indotti a supporre che si tratti d’un d’après è nel felice rassemblement del titolo che dobbiamo scorgere un particolare che ne soggettivizza l‘esperienza, e nell’interposizione delle desinenze è contenuto il codice di un lavoro in soggettiva, non demandabile all’interpretazione di un modello. Le assonanze con l’opera di Bacon non terminano qui. C’è un particolare operativo, un preliminare fondamentale che accomuna temporaneamente il lavoro del pittore e le fotografie di Egon Topo e, che sta dentro nella commistione tra pittura e fotografia. La tecnica di Francis Bacon infatti prevedeva l’utilizzo di fotografie, propedeutiche al dipinto che egli stesso scattava deturpandole, incidendole, quasi sottoponendole a un qualche rito di consumazione antropofaga. Una violenza che poi avrebbe trasposto nella tela con la stessa furia iconoclasta. In “Bac(ON)me” ravvisiamo la stessa massa che tenta di sfuggire alla forma, sorpresa nel momento più lacerante di tagli, di strappi che sono insieme dolenti, reali, veri ma che bisogna leggere alla controluce della metafisica. Egon Topo parla di sé ma a noi giungono echi di noi stessi in un’espressione universalistica del tormento nel quale opera un complesso di associazioni che dirompono sul cosciente. L’uomo non è impermeabile, non possiede un’anima che sappia rifrangere le sue angosce e dunque ha diritto a conclamare la parte tenuta nascosta. L’urlo è liberatorio, esso è l’ultimo disperato messaggio di una carne preda della mente; e la carne stessa è il terreno su cui si combatte una battaglia resa ancor più feroce e fatalmente dinamica dai lunghi tempi di esposizione. Osservando la serie “Bac(ON)me” siamo trasportati sul crinale di un precipizio dal quale possiamo, al massimo, assistere a un volo fermo, sospeso perché imbrigliato nella densità pneumatica di un’angoscia che immobilizza. E non c’è come la restituzione della staticità a determinare il senso del movimento, lo stesso a cui assistiamo quando ammiriamo “I prigioni” di Michelangelo, quando, colpiti dal dramma di marmi che vogliono farsi carne assistiamo al più profondo atto di ribellione in tutta la storia dell’Arte. Egon Topo si muove con sicurezza: ha ben chiaro il camino e lo percorre fino in fondo. Egli sa che nulla è sacro, non esistono tabu inviolabili su cui porre il veto alla narrazione e in accordo a questo assunto nemmeno l’uomo lo è, e dunque gli restituisce dignità aprendolo al diritto all’espressione della disperazione. “Bac(ON)me” è questo, una lunga introspezione, un viaggio solitario nelle cui oscurità scorgiamo dei compagni di viaggio, silenziosi e disperati e nelle cui urla, nei movimenti sincopati, nella ferma velocità riconosciamo noi stessi. Rilke ha detto che noi siamo i migliori compagni di viaggio di noi stessi. Vero, ma “Bac(ON)me” è un’ottima guida, una bussola. E un buon lavoro fotografico.
Giuseppe Cicozzetti
da “Bac(ON)me”
Foto Egon Topo
There’s no creative action that is not generated by tension and torment, and in the absence of these two states of mind there is no artistic activity that can be said complete.
Qiut tormenting himself, said Emil Cioran, is to fall into the indifference of the dead; and in order to feel alive that man caresses torment, to enter into himself, to know himself deeply: man observes himself through the abyss of the abyss, he looks for his image in the distorting and obscure mirror of his own malaise and there’s no struggle that is more exhausting and true than knowledge.
Once the limit of “ex-material” representation has been overcome, photography has faced the challenge of the irreproducible, of the solitary evanescence of pain metaphorically introjecting its lens into the bowels of man, into his flesh, into the secrecy of discontent.
A revolutionary gesture that is at the same time another piece towards the knowledge and representation of malaise. The series "Bac(ON)me" by Egon Topo explores with crudity and honesty the emotional labor of the existence.
The title immediately reveals how the work is a dutiful homage to the great Irish painter Francis Bacon. But as far as we are led to suppose that it is a “d'après”, it is in the happy “rassemblement” of the title that we must see a detail that subjectivizes the experience, and the code of a subjective work is contained in the endings, not assignable to the interpretation of a model.
The assonances with Bacon's work do not end here. There’s an operative detail, a fundamental preliminary that temporarily unites the painter's work and the photographs of Egon Topo and, which is inside the mingling of painting and photography.
The technique of Francis Bacon in fact foresaw the use of photographs, propaedeutic to the painting that he was shooting disfigured, engraving, almost subjecting them to some ritual of consumption anthropophagous. A violence that then would have transposed into the canvas with the same iconoclastic fury.
In "Bac(ON)me" we perceive the same mass that tries to escape form, surprised in the most lacerating moment of cuts, of tears that are both painful, true, real but that must be read to the light of metaphysics. Egon Topo speaks of himself, but we reach echoes of ourselves in a universalistic expression of torment in which a group of associations operates that break on the conscious. Man is not impervious, he does not possess a soul that knows how to refract his anxieties and therefore has the right to conclude the hidden part.
The scream is liberating, it is the last desperate message of a flesh prey of the mind; and the flesh itself is the ground on which a battle is fought made even more ferocious and fatally dynamic by the long exposure times. Observing the series "Bac(ON)me" we are transported on the ridge of a precipice from which we can, at most, watch a steady, suspended flight because it is harnessed in the pneumatic density of an anguish that immobilizes.
And there is not like the restitution of static to determine the sense of movement, the same we see when we admire "The Prisoners" by Michelangelo, when, affected by the drama of marble that want to be flesh, we witness the deepest act of rebellion in all the history of art.
Egon Topo moves with confidence: his path is clear and goes all the way to the end. He knows that nothing is sacred, there are no inviolable taboos on which to veto the narration and according to this assumption not even man is, and therefore returns dignity by opening it to the right to the expression of despair.
"Bac (ON) me" is this, a long introspection, a lonely voyage in whose obscurity we see the traveling companions, silent and desperate, and in whose screams, in the syncopated movements, in the steady speed we recognize ourselves. Rilke said that we are the best travel companions of ourselves. True, but "Bac(ON)me" is a great guide, a compass. And a good photographic work.
Giuseppe Cicozzetti
from “Bac(ON)me”
ph. Egon Topo