FOTOTECA SIRACUSANA
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SCRIPTPHOTOGRAPHY
Angie STERGIO (GR)
ANGIE STERGIO
Ha scritto Pessoa: «Il sogno è ciò che abbiamo di realmente nostro, d'impenetrabilmente e di inespugnabilmente nostro. L'Universo, la Vita – che sia realtà o illusione – è di tutti, tutti possono vedere ciò che io vedo, e possedere ciò che io posseggo. Ma quel che sogno nessuno può vederlo tranne me, nessuno tranne me può possederlo». Nulla dunque è più personale d’un sogno. È difficile rincorrere un sogno per traslocarlo nella dimensione visiva senza ricorrere a un apparato di segni da organizzare e lasciarli alla altrui decodifica: la coscienza obbedisce a un proprio linguaggio, strutturato, gerarchicamente logico nel quale ogni pensiero, ogni visione pretendono d’essere interpretati secondo un ordine infallibile nel “qui e ora” dell’apparizione. Nel sogno la nostra coscienza è territorio di scorribande di visioni che si organizzano anarchicamente: si avvicendano, si affollano e all’apparire dell’alba svaniscono precipitando nella memoria sciarade spesso inestricabili. La fotografia, una volta risolta la crisi con il reale, ha lungamente accarezzato l’idea di trasmigrare in immagini eterne «quella vita dentro la vita, impalpabile e terribile» quelli che noi chiamiamo sogni. La fotografa greca Angie Stergio con “Strange World” penetra il varco nebbioso dell’onirico, e vi si addentra con un linguaggio allusivo e insidioso quanto lo sono i sogni. Il suo stile, preminentemente, è minimalista: pochi segni attraversano l’immagine per comporla, eppure abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a qualcosa che è stata scarnificata perché i suoi segni si prestino a una moltitudine di interpretazioni (non è forse questo che fa un sogno?). Qual è allora lo “strano mondo” visto attraverso gli occhi di Angie Stergio? È un mondo sdrucciolevole, compreso tra il desiderio di confessare quanto ha in serbo senza prima averci confuso, attirandoci in un recinto dove quello che appare non è detto che sia accaduto, nella realtà come nel sogno. Ecco allora che il mistero, anziché chiarirsi, si articola su un crinale misterioso, buio, talvolta, ma proprio nell’oscurità – che vediamo anche laddove le immagini sono preda di un chiarore abbagliante – ci viene incontro la convinzione di essere semplicemente testimoni d’un viaggio personale (per tornare a Pessoa) e dunque, in qualche maniera, dobbiamo sentire l’onere del privilegio. A noi che osserviamo le foto di “Strange World” non spetta altro che frugare dentro la nostra “coscienza sepolta” e provare a verificare se nel catalogo dei nostri sogni – anche quelli più lontani – ci sono dei segni che ci appartengono, se un sogno così non lo abbiamo fatto anche noi. Se sì, se cioè abbiamo un’esperienza che in qualche modo può definirsi condivisibile allora la fotografia serve anche a questo, a fare in modo che affiorino in chi osserva sensazioni e ricordi creduti svaniti per sempre. Non è poca cosa.
Giuseppe Cicozzetti
da “Strange World”
foto Angie Stergio
Pessoa wrote: «The dream is what we really have of ours, impenetrable and impregnably ours. The Universe, Life - be it reality or illusion - belongs to everyone, everyone can see what I see, and possess what I possess. But what I dream no one can see except me, no one but me can possess it». So, nothing is more personal than a dream. It is difficult to chase a dream to move it into the visual dimension without resorting to an apparatus of signs to organize and leave them to the decoding of others: consciousness obeys its own language, structured, hierarchically logical in which every thought, every vision pretends to be interpreted according to an infallible order in the "here and now" of apparition. In dreams, our conscience is a territory of raids of visions organized anarchically: they alternate, crowd and when dawn appears they vanish, precipitating often inextricable charades into memory. Once the crisis with reality has been resolved, photography has long cherished the idea of transmigrating into eternal images «that life within life, impalpable and terrible» what we call dreams. The Greek photographer Angie Stergio with "Strange World" penetrates the misty passage of the dream, and enters it with an allusive and insidious language as dreams are. Her style, pre-eminently, is minimalist: few signs cross the image to compose it, yet we have the impression of finding ourselves in front of something that has been stripped down so that its signs lend themselves to a multitude of interpretations (perhaps this is not what a dream does?). What then is the "strange world" seen through the Angie Stergio’s eyes? It’s a slippery world, between the desire to confess what she has in store without first having confused us, drawing us into an enclosure where what appears does not necessarily happen, in reality as in a dream. Here then is that the mystery, instead of being clarified, is articulated on a mysterious ridge, sometimes dark, but precisely in the darkness - which we also see where the images are prey to a dazzling light - we are met with the conviction that we are simply witnesses of a personal journey (to return to Pessoa) and therefore, in some way, we must feel the burden of privilege. To us who look at the photos of "Strange World" it is not up to us to search inside our "buried conscience" and try to verify if in the catalog of our dreams - even the most distant ones - there are signs that belong to us, if a dream so we didn't do it too. If so, that is, if we have an experience that in some way can be defined as shareable, then photography also serves this purpose, to ensure that sensations and memories that are believed to have vanished forever emerge in the viewer. It’s not a small thing.
Giuseppe Cicozzetti
from “Strange World”
ph. Angie Stergio