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Steven SIEWERT (Australia)
STEVEN SIEWERT
Quattro giorni quattro, e su Las Vegas – non potrebbe essere altrove – ricade la polverosa nostalgia di un passato breve. Gli anni ’50 tornano a rivivere: tutto parla di quegli anni. Il più grande raduno Rockabilly al mondo attira ogni anno oltre 200.000 fan che qui, nella città del Nevada, tra ciuffi alla Elvis, gonne a balze, automobili monumentali e concerti tributo rivivono i fasti di un’America che non c’è più. E’ il “Viva Las Vegas Festival”, una sagra strapaesana scivolata nell’elettricità del mito della Frontiera, nella zona franca dell’ipocrisia puritana, nel sogno ripetuto all’infinito tra i neon luccicanti della Strip. Las Vegas è tutto e il contrario di tutto: accoglie e respinge ma a tutti offre un’occasione. Sam “Ace” Rothstein, un tale alla penombra della giustizia ci regala una magnifica descrizione della città: “Quelli come me Las Vegas li ripulisce dai peccati, è come un autolavaggio della moralità, fa per noi quello che Lourdes fa per i gobbi e gli storpi”. Poi ci sono i compulsivi iniettori di monetine, quanti cercano una svolta tra i giri bugiardi dei rulli delle slot machine. A Las Vegas la vita è uno spettacolo e come ogni spettacolo ha un termine. E non sempre è lieto. L’australiano Steven Siewert è lì in quei giorni, tra le vertigini d’un Festival che celebra un tempo che non c’è più. E meno male, perché a fianco della musica di Presley, Perkins, Haley, Lewis c’era un Paese segregazionista che detestava i suoi figli neri e che negava i diritti civili. Erano gli anni del “Green Book”, la famigerata guida per gli afroamericani, dove persino la fama non metteva al riparo dal razzismo il Rat Pack, spedendo Sammy Davis junior in una topaia ai margini delle luci. L’obiettivo di Siewert non giudica, registra. E lo fa restituendoci un rito che in assenza di mistero non ha bisogno di alcuna interpretazione. Il revival è piatto come il deserto, e altrettanto sterile. E pertanto non è il caso di scomodare le atmosfere acide uscite dalla penna di Hunter S. Thompson in “Paura e disgusto a Las Vegas”, perché è tutto lì: “Questa non è una buona città per le droghe psichedeliche. La realtà stessa è troppo distorta”. E in questa distorsione le figure piatte di Siewert si aggirano festanti come in una rappresentazione pop di una realtà che basta a se stessa e bianca come il latte. Almeno per quattro giorni quattro. Poi si smette di fingere, tutti a casa fino al prossimo anno, mentre Las Vegas apre le sue braccia ad altri sognatori.
Giuseppe Cicozzetti
da “Viva Las Vegas Festival!”
foto Steven Siewert
Four days four, and on Las Vegas - it couldn't be anywhere else - the dusty nostalgia of a short past falls. The 1950s come back to life: everything speaks of those years. The biggest Rockabilly gathering in the world attracts over 200,000 fans every year, who here in the city of Nevada, among Elvis tufts, frilled skirts, monumental cars and tribute concerts relive the glories of an America that no longer exists. It’s the "Viva Las Vegas Festival", a feast slipped into the electricity of the myth of the Frontier, in the free zone of puritan hypocrisy, in the endlessly repeated dream among the gleaming neon of the Strip. Las Vegas is everything and the opposite of everything: it welcomes and rejects but offers everyone an opportunity. Sam "Ace" Rothstein, a man of justice in the twilight gives us a magnificent description of the city: "Those like me Las Vegas cleanses them of their sins, it's like a carwash of morality, does for us what Lourdes does for humpbacks and lame". Then there are the compulsive coin injectors, those looking for a breakthrough in the lying laps of the slot machine rollers. In Las Vegas life is a show and like every show has a term. And it ain’t always happy. The Australian Steven Siewert is there in those days, among the vertigo of a Festival that celebrates a time that no longer exists. And thank goodness, because alongside Presley's music, Perkins, Haley, Lewis there was a segregationist country that detested its black children and denied civil rights. Those were the years of the "Green Book", the infamous guide for African Americans, where even the fame did not shield the Rat Pack from racism, sending Sammy Davis junior to a dump at the edge of the lights. Siewert's lens does not judge, he records. And he does this by giving us a ritual that in the absence of mystery needs no interpretation. The revival is as flat as the desert, and just as sterile. And therefore it is not the case to disturb the acid atmospheres that came from the pen of Hunter S. Thompson in "Fear and Loathing in Las Vegas", because everything is there: “This is non a good town for psychedelic drugs. Reality itself is too twisted”. And in this distortion the flat figures of Siewert roam rejoicing as in a pop representation of a reality that is self-sufficient and white as milk. At least four days four. Then he stops pretending, all at home until next year, while Las Vegas opens his arms to other dreamers.
Giuseppe Cicozzetti
from “Viva Las Vegas Festival!”
ph. Steven Siewert