FOTOTECA SIRACUSANA
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SCRIPTPHOTOGRAPHY
Quentin SHIH (USA)
QUENTIN SHIH
Certi lavori vanno fatti bene, se no è meglio non farli. Parlo di grandi cose, non di lavoretti tipo imbiancare una parete o aggiustare una vecchia sedia. Parlo di Dio. Sì, di lui. Ha impiegato solo sette giorni per creare tutto quello che vediamo, compreso noi. Roba non da poco, si dirà. Vero, non è poco. Poiché però crediamo che a lui sia ignota la nozione di poco (la bellezza con cui ha voluto vivessimo è smisurata) e, al contempo, quella del Tempo, allora mi chiedo se non poteva aggiungere un giorno in più alla sua creazione: da sette a otto. C’è una crisi nel lavoro di Dio, diciamolo, nemmeno avesse dovuto abbandonare la sua creazione per decorrenza dei termini. Un giorno in più, altre ventiquattro piccole ore e sismo sicuri che il Padreterno si sarebbe occupato di eliminare dalle nostre vite un episodio assai disdicevole: la morte. Invece niente, siamo condannati alla mortalità. E siamo spaventati.
Anzi terrorizzati. Come ogni cosa che non conosciamo. Ed è per questo che ne parliamo in continuazione, quasi che la forza delle parole in qualche modo potesse rassicurarci. La fotografia si è ampiamente occupata della morte, almeno nella rappresentazione della sua accidentalità. Altre volte, proprio per la “scabrosità” dell’argomento, è stata frenata al suo limitare, con un accenno, seppur drammatico, che lasciava a noi immaginare il triste epilogo. Pochi, ma illustri, sono stati i fotografi che hanno rappresentato la fine naturale della vita di un uomo. Un fotografo che nel corso del suo lavoro si è occupato dell’argomento morte è il cinese Quentin Shih. Il suo approccio è leggero, ironico talvolta, come va affrontata una vicenda su cui non abbiamo nessun controllo e – è bene sottolinearlo – la sua esplorazione rappresenta una parentesi in un’attività molto più eclettica che va dalla moda al reportage e alla paesaggistica.
Nella serie “Citizen of the State” siamo colti da una vertigine azimutale che ci precipita al centro della rappresentazione del dramma. Un letto occupa la quasi totalità dell’inquadratura, sopra giace un corpo senza vita: ordinatissimo, sembra che dorma. Si direbbe una “sterilizzazione” della morte, un’espediente che distoglie dalla tragedia e invece no, e a ricordarcelo sono le persone al capezzale chiamate a essere testimoni del trapasso: ora in raccoglimento e ritti accanto alla salma ora – e più efficacemente alla narrativa – seduti e piangenti. In ogni caso dunque è avvertibile una tensione che è insieme una differenza tra chi è vivo e chi non c’è più. A concorrere a implementare il quadro complessivo, Quentin Shih aggiunge un elemento rassicurante che stempera la drammaticità del momento: un pavimento di fiori, un dettaglio che vuole rendere la morte meno paurosa.
La morte dunque ha un suo linguaggio, una propria iconografia. Nella serie “The Departing Youth” vediamo qualcosa che, sebbene con una diversa declinazione, è familiare anche alle nostre latitudini: la fotografia funeraria, l’ultima immagine da consegnare alla memoria della posterità. I nostri cimiteri sono stracolmi di immagini di defunti colti nel momento di buona salute. Non è un caso. Una ragione è che a nessuno verrebbe in mente di farsi fotografare per la bisogna ma è nei suoi effetti che intravediamo la principale delle motivazioni. Ricordare infatti un defunto è meno doloroso se vediamo l’ultima sua immagine che lo ritrae sereno e sorridente. Nondimeno in Cina. Nei “tondi” funerari di Quentin Shih la morte è sfidata sul piano di un’allegoria scoppiettante di vitalità. Il caro estinto sembra addirittura guardare fiducioso a un futuro che non ha; ha fiori tra le mani, ne è circondato; addirittura canta – e non sapendo se questa fosse la sua occupazione, di certo il messaggio che vuol mandarci dovrebbe rassicurarci circa un mondo di cui non abbiamo notizie. Le immagini sono chiare, evanescenti, rarefatte; non obbediscono più a uno stilema cromatico che interessa i vivi. Ecco marcata un’altra differenza, un ulteriore scatto che separa “graficamente” i due mondi come due linguaggi destinati a viaggiare parallelamente senza mai incontrarsi. Così come non comune è il destino degli uomini nemmeno nella morte. La serie “Sanitization or the Death of a Powerful Man” vuol dirci proprio questo. In poche immagini. Con molta probabilità siamo in una morgue. La luce è fredda, astrale. Alcuni attrezzi giacciono su un tavolo, sono gli stessi che saranno utilizzati per “sanificare” il corpo del defunto. Non di tutti però, solamente di coloro che possono permetterselo, perché il capitalismo ha imposto le sue regole classiste anche alla Cina. Qui, in questa serie, sono gli oggetti a parlarci della morte, come fossero un’appendice al racconto. Accessori che hanno il potere di ricordarci che la morte è un affare che interessa i vivi.
Nelle fotografie di Quentin Shih è del tutto assente l’elemento lugubre. Il fotografo gioca con la morte, la sfida e la conduce su un piano che la morte non conosce per assicurarsi la vittoria. In talune immagini, scende a patti riconoscendo la portata emotiva del dramma privato (“Citizen of the State”), sebbene stemperata da elementi allegorici; in un’altra (“The Departing Youth”) è presente una venatura pop, diremmo canzonatoria, che vuole farsi beffe della tragicità trasportando l’evento nella dimensione del non-reale e dunque inverificabile. Qui la morte è finalmente “sterilizzata”, svuotata dalla portata tragica e dunque innocua. Non fa più paura e se lo fa è colpa degli uomini che ancora (“Sanitization or the Death of a Powerful Man”) estendono alla morte le stesse categorie classiste in uso presso ogni società. Nessuno si senta infastidito dalle fotografie di Quentin Shih, non sono le sue a doverci irritare.
Giuseppe Cicozzetti
da “Citizen of the State”; “The Departing Youth”; “Sanitization or the Death of a Powerful Man”.
foto Quentin Shih
Some work should be done well, if not, it’s better don’t do it. I'm talking about great things, not about like whitening a wall or adjusting an old chair. I’m talking about God. Yes, of him. He took only seven days to create everything we see, including us.
It’s not a small-time, it will be said. True, it's not a little. However, since we believe that the notion of little is unknown to him (the beauty with which he wanted to live is deformed) and, at the same time, of Time, then I wonder if he could not add a day to his creation: seven to eight. There is a crisis in the work of God, let's say it, as if he have had to abandon its creation for effects of terms.
One more day, another twenty-four small hours, and we were sure that the Almighty delight would take care of eliminating from our lives a very disappointing episode: death. Instead, we are condemned to mortality. And we are scared.
Indeed terrified. Like everything we do not know. That is why we are talking continuously it as if the strength of words could somehow reassure us.
Photography has been largely occupied with death, at least in the representation of its accident. Other times, precisely because of the "scabiousness" of the subject, death was restrained at his limitation, with a hint, altough dramatic, that left us to imagine the sad epilogue.
Few, but illustrious, were the photographers who represented the natural end of a man's life. A photographer who during his work has dealt with the subject of death is Chinese Quentin Shih.
His approach is light, ironic sometimes, how to deal with a story we do not have any control and - it is worth pointing out - his exploration is a parenthesis in a much more eclectic activity ranging from fashion to reportage and landscaping.
In the "Citizen of the State" series, we are struck by azimuth-like dizziness that rushes to the center of the representation of drama. A bed occupies almost the whole of the frame, above lies a lifeless body: very orderly, it seems to sleep.
It would say a "sterilization" of death, an exaggeration that escapes from the tragedy, and instead, and to remind you, the people in the bed are called witness to the passage: now in recollection and rites beside the body now - and more effectively in narrative - sitting and crying. In any case then there is a noticeable tension that is together a difference between those who are alive and those who are no longer among us.
To compete to implement the overall picture, Quentin Shih adds a reassuring element that draws the drama of the moment: a floor of flowers, a detail that wants to make death less scary.
Death therefore has its own language, its own iconography. In the "The Departing Youth" series we see something that, although with a different declination, is also familiar to our latitudes: the funeral photography, the last image to be delivered to the memory of posterity.
Our cemeteries are overwhelmed with images of deceased adults who are in good health. It's not a casuality. One reason is that nobody would think of being photographed for it but it is in its effects that we see the main motivation. Remembering a departed is less painful if we see his last image that portrays him serene and smiling.
Nevertheless, in China. In Quentin Shih's “funerary rounds”, death is challenged on the plane of a lustrous allegory of vitality. The dear extinct seems even to look confident in a future he does not; she has flowers in her hands, she is surrounded; even sings - and not knowing if this was his job, the message he wants to send us should reassure us about a world we do not have news.
The images are clear, evanescent, rarefact; they no longer obey a color scheme that interest the living. Here is another difference, a further step that separates "graphically" the two worlds as two languages destined to travel in parallel without ever meeting.
As the unusual destiny of men is not common even in death. The "Sanitization or the Death of a Powerful Man" series tells us just this. In a few pictures. We are most likely in a morgue.
Light is cold, astral. Some tools lie on a table, they are the same ones that will be used to "sanitize" the body of the deceased.
Not all of them, however, only those who can afford it, because capitalism has imposed its classism rules also on China.
Here, in this series, the objects are talking about death, as they were an appendage to the tale. Accessories that have the power to remind us that death is a business that interests the living ones.
Quentin Shih's photographs are avoid of lugubrious elements. The photographer plays with death, the challenge, and leads him to a level that death does not know to secure victory.
In some pictures, he makes deals recognizing the emotional reach of the private drama ("Citizen of the State"), though overlaid by allegorical elements; in another ("The Departing Youth") there is a pop venue, say we deriding, who wants to be laughing at the tragedy carrying the event in the dimension of the non-real and therefore impossible.
Here death is finally "sterilized", emptied by the tragic extent and therefore harmless. He is no longer afraid, and if he is to blame for the men who still (the "Sanitization or the Death of a Powerful Man") extend to death the same classical categories in use with each society. Nobody is annoyed by the photographs of Quentin Shih, they are not the ones that can irritate us.
Giuseppe Cicozzetti
from “Citizen of the State”; “The Departing Youth”; “Sanitization or the Death of a Powerful Man”.
ph. Quentin Shih