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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Ken  SCHLES                                                                                      (USA) 

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KEN SCHLES

La storia di una generazione raccontata per immagini. Una generazione che non c’è più, trasformata e inglobata dal flusso veloce degli avvenimenti. Siamo ad Alphabet City, un quartiere di New York dove le strade sono contrassegnate da una lettera, espressione di un degrado che nel sordido squallore ha visto nascere la più alta forma di un ribellismo giovanile immediatamente versatosi sulla scena musicale: il punk. Questa inoltre è la cronistoria di un avamposto bohemien nell’era pre-Internet. Un mondo che non c’è più, come forse non c’è più chi quelle macerie le ha eletto a residenza creativa. “Invisible City” di Ken Schles, edito nel 1988, è il canto dolente e fuggiasco di una realtà contemporanea spesa nella consapevolezza che nulla possa aspirare a radicare le sue propaggini. C’è come qualcosa con cui fare i conti, come un’ambizione rigettata e spenta sull’altare di un nichilismo generazionale: i ribelli senza una causa hanno abitato le strade di Manhattan abbeverandosi al suono della musica dei Ramones, eco americana della dissacrazione britannica dei Sex Pistols e quel che resta, dopo il fulgore dissacratorio dei primi anni ottanta, è un cumulo di umanità naufragata nell’assenza di prospettiva. “Invisible City” è un titolo programmatico, come sempre quando si ha intenzione di descrivere una realtà che non c’è. Ma qui invece c’è tutto, solo non si vuole che si veda. Accade sempre così fin dai tempi di Jacob Riis. Con una differenza. “Invisible City” e “How the other half lives” divergono in un dettaglio dirimente. Nell’imprescindibile lavoro di Riis c’è una umanità al cospetto con un destino avverso, quasi fosse stato scritto nei caratteri di una povertà fatale e difficile da riscattare, mentre, al contrario, Schles racconta di gente che abdica a qualunque redenzione, tenendosi lontano dalle seduzioni mainstream: qui, ad Alphabet City, “Le Mille Luci di New York” di McInerney proiettano l’ombra sinistra dell’esclusione volontaria e distruttiva, “affogata nel dolore” come riassume la fotografia d’apertura. Ma le immagini di “Invisible City” sono piene di riferimenti estetici e contenutistici. Il bianco e nero durissimo celebrato qua e là in una violenta sfocatura, rimanda alla corrosiva lezione giapponese di Provoke cui ha attinto una intera generazione di artisti che così ha stabilito l’ambito linguistico in cui muovere la ricerca. Ecco dunque apparire, con la nettezza epigrafica cui ci ha abituato un certo tipo di fotografia di strada – qui a livelli assoluti –, l’intero catalogo visuale di riprese sbilenche, sdrucciole, allusive, notturne, sporche, dove il più delle volte è al dettaglio dello scatto ravvicinato che viene chiesto di raccontare la scena; una scena che non esita a lasciare la strada e i suoi deambulanti per introdurci nella disperata intimità degli interni, quasi a stabilire un rapporto di stretta reciprocità tra gli ambienti, come nella derelitta tenerezza di un abbraccio che contrasta con l’equivoca atmosfera di un locale per soli uomini. Ma poiché poche città al mondo hanno la vocazione a cambiare se stessa come New York, con gli annessi paesaggi umani, Schles, come attraversato da un senso di sospetta incompletezza, nel 2014 pubblica “Night Walk, una riedizione di “Invisible City” con materiale escluso dall’edizione originale, e nuove fotografie che completano la filologia di un discorso che andava espletato per intero. “Night Walk” espande un modello in una città che sente farsi più restrittiva, quasi esclusiva, mantenendo una specificità che non consente all’osservatore di interpretarla in modi diversi da quanto espone. Schles ci ha condotti con l’onesta brutalità di una guida nelle viscere di un passato che allunga le sue propaggini nel presente, e che non tiene troppo conto delle circostanze a prescindere da quello che condividiamo o non condividiamo. Nei suoi lavori non c’è aria di glorificazione, c’è, al contrario, un impeto documentaristico scarno ed essenziale com’è imprescindibile qualora si voglia raccontare con onestà qualsivoglia fenomeno sociale.

 

Giuseppe Cicozzetti

da “Invisible City”;  “Night Walk” 

 

foto Ken Schles

 

http://www.kenschles.com/

 

The story of a generation told in images. A generation that is no longer there, transformed and absorbed by the rapid flow of events. We are in Alphabet City, a district of New York where the streets are marked by a letter, an expression of a degradation that in the sordid squalor saw the birth of the highest form of youthful rebellion immediately spilled on the music scene: punk. This is also the history of a bohemian outpost in the pre-Internet era. A world that no longer exists, as perhaps there is no one who those rubble has chosen as its creative residence. "Invisible City" by Ken Schles, published in 1988, is the sorrowful and fugitive song of a contemporary reality spent in the knowledge that nothing can aspire to root its offshoots. There’s something to be reckoned with, like an ambition rejected and extinguished on the altar of a generational nihilism: the rebels without a cause have lived on the streets of Manhattan drinking at the sound of the music of the Ramones, an American echo of the British desecration of the Sex Pistols and what remains, after the irreverent splendor of the early eighties, is a heap of humanity sank in the absence of perspective. "Invisible City" is a programmatic title, as always when you intend to describe a reality that does not exist. But here, however, there is everything, just don’t want to see it. It has always been like this since the days of Jacob Riis. With a difference. "Invisible City" and "How the other half lives" diverge in a decisive detail. In the indispensable work of Riis there is a humanity in the presence with an adverse destiny, as if it had been written in the characters of a fatal poverty difficult to redeem, while, on the contrary, Schles tells of people who abdicate any ransom, keeping away from the mainstream seductions: here, in Alphabet City, McInerney's the “bright lights of New York" project the sinister shadow of voluntary and destructive exclusion, "drowned in pain" as summarized in the opening photograph. But the images of "Invisible City" are full of aesthetic and content references. The very hard black and white celebrated here and there in a violent blur, refers to the corrosive Provoke Japanese lesson which was drawn by an entire generation of artists who thus established the linguistic environment in which to move the research. Here therefore appear, with the epigraphic sharpness to which a certain type of street photography has accustomed us - here at absolute levels -, the entire visual catalog of lopsided, slippery, allusive, nocturnal, dirty filming, where most of the time it is at close-up detail that is asked to tell the scene; a scene that does not hesitate to leave the street and its walkers to introduce us into the desperate intimacy of the interiors, as if to establish a relationship of close reciprocity between the environments, as in the derelict tenderness of an embrace that contrasts with the ambiguous atmosphere of a place for men only. But few cities in the world have the vocation to change itself like New York, with the annexed human landscapes, Schles, as crossed by a sense of suspect incompleteness, in 2014 publishes “Night Walk, a new edition of “Invisible City” with material excluded from the original edition, and new photographs that complete the philology of a speech that had to be completed in full. "Night Walk" expands a model in a city that feels more restrictive, almost exclusive, maintaining a specificity that does not allow the observer to interpret it in different ways than it exposes. Schles led us with the honest brutality of a guide in the bowels of a past that extends its offshoots in the present, and that does not take too much account of circumstances regardless of what we share or disagree with. In his works there is no glorification, there is, on the contrary, a bare and essential documentary impetus as is essential if you want to tell honestly any social phenomenon. 

 

Giuseppe Cicozzetti

from “Invisible City”;  “Night Walk” 

 

ph. Ken Schles

 

http://www.kenschles.com/

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