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SCRIPTPHOTOGRAPHY

SYLVIA PLACHY

Ungheria 1956, la rivoluzione ungherese, una sollevazione che aveva l’obiettivo la liberazione del Paese dall’influenza dell’Unione Sovietica, viene soffocata nel sangue. La breve stagione della libertà muore e con essa ogni speranza di democrazia. Sylvia Plachy ha 13 anni. I suoi genitori ebrei, scampati alle persecuzioni naziste, decidono di lasciare l’Ungheria e di rifugiarsi negli Stati Uniti. Il padre, per alleviare la solitudine della figlia, le regala una macchina fotografica. Sylvia Plachy non smetterà più di scattare: nel 1965 si diploma al Pratt Institut, dove conosce il suo mentore, André Kertész, cui rimarrà legata da profonda stima e amicizia. Più tardi il maestro dirà di lei: «Non ho mai visto un momento percepito e catturato in una pellicola con più intimità e umanità». E infatti intimità e umanità sono le prerogative che attraversano ogni suo scatto. Il suo modo di osservare è silenzioso, discreto come ad anticipare un minimalismo visuale che più tardi sarebbe confluito nella scrittura e che avrebbe movimentato la scena letteraria americana. Ma se nei racconti dei minimalisti erano le parole attratte nel gioco della sottrazione, qui, nelle fotografie di Plachy sembra che di parole non vi sia alcun bisogno. A confermarlo è lei stessa: «Credo di essermi avvicinata alla fotografia perché da piccola sono stata una profuga e ho fatto affidamento sull’osservazione silenziosa di ciò che mi accadeva intorno. Ho cercato di capire cosa succedeva senza spiegarlo con e parole». Il suo stile è deliziosamente crudo e possiede quel tanto di sconsiderata e felice arroganza che confluisce in immagini in cui a tecnica sembra cedere il passo al sentimento. Qualcuno dovrebbe scrivere qualcosa sulla bellezza dell’errore e farne un trattato, perché si ribalti a proprio vantaggio quello che sembra un’imprecisione stilistica ed ergerla cifra fondativa del proprio linguaggio. L’istinto, innanzitutto. Il sapere senza sapere. In ognuno dei lavori di Sylvia Plachy si avverte una respiro carnale, ruvido, essenziale, millimetricamente vicino all’essenza: che si tratti di ritratti di personaggi dell’arte o dello spettacolo (non smetterà mai di fotografare suo figlio, l’attore premio Oscar Adrien Brody, di cui vediamo qui un ritratto) o persone comuni catturate sul palcoscenico della vita Plachy ci restituisce le caratteristiche più vicine della loro personalità. Si osservi a questo proposito il ritratto della donna che fuma. Noi non sappiamo chi sia, ma questa assenza di coordinate è presto colmata dalla immaginazione a cui siamo invitati dalla fotografa. La donna è colta in un momento di ausa. Fuma. E’ naturalmente incurante della presenza di un obiettivo che le donerà l’immortalità – e qui si coglie la caratteristica di Plachy nel farsi dimenticare dal soggetto. Un attimo, un solo attimo. Il tempo di un clic che libera il fumo della sigaretta coprendo parzialmente il volto ed ecco che la donna ci appare in tutta l’indolente e morbida sensualità. Guardate i segni della fotografia: la figura femminile è nella metà sinistra dell’inquadratura (molti avrebbero da ridire) ma in questa “divisione”, tenuta in equilibrio dalla massa scura della poltrona si agitano due diversi contrappunti: il chiarore del da un lato, la tentazione e il mistero dall’altro. Mistero che si innerva di beffardo quando scorgiamo alle spalle il disegno d’un cuore trafitto, simbolo di un amore che non è in questa immagine. C’è qualcosa di profondamente sensuale in questa fotografia, frutto di una sapienza femminile che traduce l’erotismo in immagini meglio di quanto non sappiano fare gli uomini. Questa fotografia è un piccolo miracolo, ma i miracoli non accadono per caso, essi amano accadere quando qualcuno è pronto per tramandarli. E di tanti piccoli miracoli, sporchi magari, imperfetti, forse, mancanti, chissà Sylvia Plachy è stata testimone. Per nostra fortuna.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

foto Sylvia Plachy

 

https://sylviaplachy.com/

 

Hungary 1956, the Hungarian revolution, an uprising that was aimed at liberating the country from the influence of the Soviet Union, is stifled in blood. The short season of freedom dies and with it every hope of democracy.

Sylvia Plachy is 13 years old. His Jewish parents, who escaped Nazi persecution, decide to leave Hungary and take refuge in the United States. The father, to alleviate his daughter's loneliness, gives her a camera. Sylvia Plachy will not stop shooting anymore: in 1965 she graduates from the Pratt Institute, where she meets her mentor, André Kertész, to whom she will remain bound by deep respect and friendship. Later the master will say of her: «I have never seen a moment sensed and perceived in a film with more intimacy and humanity».

And in fact intimacy and humanity are the prerogatives that go through every shoot she takes. Her way of observing is silent, discreet as if to anticipate a visual minimalism that would later merge into writing and that would have enlivened the American literary scene. But if in the stories of the minimalists they were the words attracted in the game of subtraction, here, in Plachy's photographs it seems that there’s no need for words.

To confirm it is herself: «I think I approached photography because as a child I was a refugee and I relied on the silent observation of what was happening around me. I tried to understand what was happening without explaining it with words». Her style is deliciously raw and possesses a bit of reckless and happy arrogance that flows into images in which technique seems to give way to feeling.

Someone should write something about the beauty of the error and make it into a treatise, so that what appears to be a stylistic imprecision and erect it as the foundation of its own language turns to its advantage. Instinct, first of all. Knowledge without knowing. In each of Sylvia Plachy's works there is a carnal, rough, essential breath, millimetrically close to the essence: whether they are portraits of characters from art or entertainment (she will never stop photographing her son, the Oscar-winning actor Adrien Brody, whose portrait we see here) or ordinary people captured on the stage of life Plachy gives us back the characteristics closest to their personality.

Look at the portrait of the woman who smokes. We do not know who he is, but this lack of coordinates is soon filled by the imagination to which we are invited by the photographer. The woman is caught in a moment of relax. She’s rounded by mistery. She is naturally oblivious to the presence of an objective that will give her immortality - and here we can see the characteristic of Plachy in being forgotten by the subject.

One moment, just one moment. The time of a click that releases cigarette smoke partially covering the face and here the woman appears in all the indolent and soft sensuality. Look at the signs of photography: the female figure is in the left half of the frame (many would argue on it) but in this "division", held in equilibrium by the dark mass of the armchair, two different counterpoints are agitated: the light of on the one hand, temptation and mystery on the other.

Mystery that is innervated by mocking when we see behind her the drawing of a pierced heart, symbol of a love that is not in this image. There’s something profoundly sensual in this photograph, fruit of a feminine wisdom that translates eroticism into images better than men know how to do. This photograph is a small miracle, but miracles do not happen by chance, they love to happen when someone is ready to pass them on. And of many small miracles, maybe dirty, imperfect, perhaps, missing, who knows, Sylvia Plachy has been a witness. Fortunately for us.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

ph. Sylvia Plachy

 

https://sylviaplachy.com/

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