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SCRIPTPHOTOGRAPHY

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EOLO PERFIDO

Ci hanno divertito, ci hanno fatto ridere con i loro nasi rossi, le guance bistrate e le imprese dispettose. Appaiono in un intermezzo tra il volteggio innaturale del trapezista e il coraggio sovrumano del domatore per alleggerire la tensione caleidoscopica del circo e consegnare i bambini al buonumore. Sono i clown. E del circo sono un emblema. Sembrerebbero personaggi innocui, i loro sketch, sebbene dispettosamente vendicativi, nascono per strappare una risata. E ci riescono. Puntualmente. Ma altrettanto puntualmente, quando pensiamo a un clown, qualcosa affiora dal profondo, un sentore che si innesta nel nostro immaginario e ci costringe a ripensare circa bonarietà della sua figura. I clown ci mettono paura, e l’inquietudine ha radici psicologiche precise che hanno a che fare con il modo in cui il cervello percepisce volti ed espressioni. Il fotografo Eolo Perfido, nella serie “Clownville” esplora l’universo di maschere ed espressioni per catturarne la natura più profonda. Il suo è un viaggio per nulla rassicurante e spietato destinato allo spiazzamento e allo stabilirsi dell’inquietudine. “Clownville” è un universo sbilenco nel quale paure diventano certezze e dove il timore, creduto superato dalla maturità, riaffiora per dirci che non è mai dileguato. E lo sa bene Stephen King che con “It” ha voluto fosse un pagliaccio a terrorizzarci. Perfido arriva diretto al cuore della questione: scremata dalla figura del clown la visione romantica e retorica che lo avvolge, lo consegna nudo, vestito cioè soltanto dall’allure terrorizzante che lo accompagna. E infatti i suoi clown non sono affatto tranquillizzanti. E non mentono. Le loro espressioni sono percorse da una minaccia che disegna gli occhi di promesse malevoli. Li vediamo agitarsi, ventilare scivolosità terrorizzanti, vediamo le loro braccia mulinare ambiguamente. Comprendiamo qualcosa di spiazzante e che, in radice, è l’origine delle nostre paure: essi sono come noi, si muovono come noi, parlano come noi ma non sono come noi: i loro nasi rossi, il trucco pesante e incomprensibile li consegna a una dimensione parallela alla nostra e l’uomo, si sa, per la sua rassicurazione necessita di “riconoscersi” nell’altro. I clown non offrono appigli. Essi vestono una maschera sconosciuta alle profondità della nostra consapevolezza e lì vi abitano. Rumorosamente, come chi sa che per esistere deve sgomitare.  La realtà di un clown è un’iperbole, un arco così transitorio dove ogni emozione è un interludio che accenna a un divenire impredicibile e in questa crisi confluiscono le nostre paure. Sa bene Perfido dell’esistenza in un clown di una sensibilità lacerata, intima, da tenere nascosta perché inascoltabile, così consapevolmente priva d’accoglienza da rimanere bloccata nel recinto dell’impronunciabile, come muta e affannata è la figura di Hans Schnier in “Opinioni di un clown”, che sceglie di ritagliarsi un angolo dal quale analizzare ciò che vede e metterlo in scena in modo farsesco, ma certamente meno grottesco della stessa realtà. In questo gioco di specchi “Clownville” spinge l’osservatore a chiedersi sul potere perturbante dell’immaginazione, sui suoi effetti e con una crudezza realista che intercetta il gotico, il naturale terreno d’ogni timore. Ma c’è ancora qualcosa. C’è infatti, come cogliamo nella disincantata rinuncia di Hans Schnier, una ragione che solleverebbe i clown dal ruolo “naturale” di cattivi e che sta dentro la metafora della loro esclusione, di una repulsione immotivata creata dal nostro immaginario, una volta toccate le sue corde più remote, e da cui sorgerebbe la loro ribellione anarchica e imprevedibile. La fotografia è questo, è uno strumento multilingue che parla moltissimi idiomi, tra questi c’è il linguaggio della paura. La nostra.

 

Giuseppe Cicozzetti

da “Clownville”

 

foto Eolo Perfido

 

https://eoloperfido.com/

 

They had fun, they made us laugh with their red noses, with their coloured cheeks and spiteful businesses. They appear in an interlude between the unnatural vaulting of the trapeze artist and the superhuman courage of tamers to lighten the kaleidoscopic tension of the circus and deliver the children to good humor. They are the clowns.

They’re an emblem of the circus. They would look like harmless characters, their sketches, though spitefully vindictive, are born to snatch a laugh. And they succeed. Definitely. But just as punctually, when we think of a clown, something emerges from the deep, a scent that is grafted into our imagination and forces us to rethink about the good-naturedness of his figure. The clowns frighten us, and the restlessness has precise psychological roots that have to do with the way the brain perceives faces and expressions.

The photographer Eolo Perfido, in the series "Clownville" explores the universe of masks and expressions to capture its deepest nature. His is a journey that is not at all reassuring and ruthless, destined for the displacement and the settling of restlessness. "Clownville" is a lopsided universe in which fears become certainties and where fear, believed to have been overcome by maturity, reappears to tell us that it has never vanished.

And Stephen King knows that with "It" he wanted a clown to terrorize us. Perfido arrives directly at the heart of the matter: skimmed by the figure of the clown, the romantic and rhetorical vision that surrounds him, delivers him naked, dressed only in the terrifying allure that accompanies him. In fact, his clowns are not at all reassuring. And they do not lie. Their expressions are traversed by a threat that draws the eyes with malicious promises.

We see them fidget, ventilate terrifying slipperiness, we see their arms moanin’ ambiguously. We understand something unsettling and that, at the root, is the origin of our fears: they are like us, they move like us, they speak like us but they are not like us: their red noses, the heavy and incomprehensible make-up gives them a dimension parallel to ours and man, we know, for his reassurance needs to "recognize” himself in the other. Clowns do not offer any holds.

They wear a mask unknown to the depths of our awareness and live there. Noisily, like someone who knows that in order to exist he has to jostle. The reality of a clown is a hyperbole, an arc so transitory where every emotion is an interlude that hints at an unpredictable becoming and in this crisis our fears converge.

Knows well Perfido the existence in a clown of a lacerated, intimate sensitivity, to be kept hidden because unlistenable, so consciously unwelcoming to be stuck in the fence of the unpronounceable, as dumb and breathless is the figure of Hans Schnier in "Ansichten eines Clowns" (“Opinions of a Clown”), who chooses to cut out a corner from which to analyze what he sees and stage it in a farcical, but certainly less grotesque, way of the same reality. In this game of mirrors "Clownville" pushes the observer to wonder about the perturbing power of imagination, its effects and with a realistic crudity that intercepts the gothic, the natural terrain of all fear.

But there’s still something. There is indeed, as we get in the disenchanted renunciation of Hans Schnier, a reason that would raise the clowns from the "natural" role of villains and that lies within the metaphor of their exclusion, of an unjustified repulsion created by our imaginary, once the its most remote strings, and from which would arise their anarchic and unpredictable rebellion. Photography is this, it is a multilingual tool that speaks a lot of idioms, among these there is the language of fear. Our fear.

 

Giuseppe Cicozzetti

from “Clownville”

 

ph. Eolo Perfido

 

https://eoloperfido.com/

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