FOTOTECA SIRACUSANA
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SCRIPTPHOTOGRAPHY
Connie IMBODEN (USA)
CONNIE IMBODEN
Molti giovani fotografi si preoccupano d’essere “originali”, come se questa definizione fosse un test per superare un livello e qualificarsi come “artista”. Non è così. Un’opera originale non è quello che si dice un’innovazione o qualcosa che irrompe sulla scena delle arti visive, è piuttosto qualcosa di slegato e insieme fortemente saldato alla contemporaneità. Goethe ha così affrontato il tema dell’originalità: “Gli autori più originali di oggi sono originali non perché creano qualcosa di nuovo, ma perché sono capaci di dire cose come se non fossero mai state dette prima”. Questo assunto rimanda direttamente alla sfera delle influenze e alla loro elaborazione. La fotografa americana Connie Imboden si muove quasi provocatoriamente nel difficile e complesso rapporto tra influenza e originalità, giungendo alla consapevolezza – e noi con lei – che quanto abbiamo negli occhi, nella memoria, quanto abbiamo amato intensifichi e innervi il lavoro di sentimenti e pensieri che, una volta emendati dallo sterile groviglio manieristico è consegnato alla stesura di un linguaggio soggettivo proprio dall’intensità e dalla profondità delle influenze. Una volta chiarito il tema dell’originalità di un’opera e della necessarietà delle influenze come background su cui costruire una nuova soggettività autonoma (si pensi al “Ritratto di papa Innocenzo X di Vélazquez” e le variazioni agonizzanti di Bacon nello “Studio” dopo lo stesso ritratto), la fotografa affonda le sue tematiche nella complessità del rapporto tra pittura e fotografia. Le sue fotografie sono fortemente attraversate da una tensione classicista, nella direzione dello “studio” o, se preferite un “d’après”. Il confronto tuttavia evita le trappole polemiche per stabilire i punti d’intesa. Così le fotografie sembrano omaggi alla grande tradizione della storia dell’Arte, dal Rinascimento di Michelangelo alle invenzioni cromatiche di Tiziano, dal Barocco nord-europeo di Rubens fino, come si vede, alla contemporaneità di Bacon. Ma con un linguaggio che convince nella sua traduzione espressionista. L’Arte è la sua “fonte”. Subito una domanda: come può qualcosa derivare da una fonte e contemporaneamente essere affermare una specifica unicità? Il paradosso ha senso nel contesto e nelle idee di Jung sull’inconscio collettivo. Se pensiamo alla "fonte" come all'inconscio collettivo, allora la parola "originale" si riferisce a un incontro con le parti più profonde della nostra umanità - il pool di simboli collettivi, archetipi, conoscenza e saggezza che è accessibile a tutta l'umanità. Le connessioni più profonde che possiamo fare con noi stessi e con gli altri è attraverso questa "sorgente" in cui incontriamo il nucleo stesso della nostra umanità e che è condivisa con ogni altro essere umano. Ecco, il lavoro di Connie Imboden è un maestoso tentativo di condivisione del sapere collettivo, la “restituzione” di quanto questo sedimento abbia influito sulla nostra formazione culturale. Linee, forme, tutto ha una carnalità espressa ora nel tormento ora in una leggerezza quasi mistica e in questo doppio registro interpretativo Imboden ci suggerisce la grandiosità della propria esperienza personale, una formazione che si riflette con la nostra e nella quale ravvisiamo la stessa attenzione, come una premura nel dipanare un ordito nel quale i riferimenti della grande tradizione si innestano dialetticamente con i mezzi e la concettualità contemporanee in uno stretto dialogo.
Giuseppe Cicozzetti
Foto Connie Imboden
Many young photographers worry about being "original", as if this definition were a test to overcome a level and qualify as an "artist". It is not so. An original work is not what one calls an innovation or something that breaks into the scene of the visual arts, rather it is something untied and at the same time strongly linked to the contemporary.
That’s the way Goethe faced the theme of originality: "The most original authors of today are original not because they create something new, but because they are able to say things as if they had never been said before." This assumption refers directly to the sphere of influences and their elaboration. The American photographer Connie Imboden moves almost provocatively in the difficult and complex relationship between influence and originality, reaching awareness - and we with her - that what we have in the eyes, in memory, how much we loved intensify and innervate the work of feelings and thoughts that, once emended from the sterile manneristic tangle, he is given to the drafting of a subjective language precisely by the intensity and depth of the influences. Once the theme of the originality of a work has been clarified and the necessity of influences as a background on which to build a new autonomous subjectivity (think of the "Portrait of Pope Innocent X of Vélazquez" and the agonizing variations of Bacon in the "Studio" after the same portrait), the photographer sinks her themes in the complexity of the relationship between painting and photography.
Her photographs are strongly crossed by a classicist tension, in the direction of the "studio" or, if you prefer an "d'après". However, the comparison avoids the polemical traps to establish the points of agreement. Thus the photographs seem to be homages to the great tradition of the history of art, from the Renaissance of Michelangelo to the chromatic inventions of Titian, from the Rubens’s north-European Baroque up, as we see, to the contemporaneity of Bacon. But with a language that convinces in its expressionist translation.
Art is her "source". Immediately a question: how can something derive from a source and at the same time be affirming a specific uniqueness? The paradox has meaning in Jung's context and ideas on the collective unconscious. If we think of the "source" as the collective unconscious, then the word "original" refers to an encounter with the deepest parts of our humanity - the pool of collective symbols, archetypes, knowledge and wisdom that is accessible to the whole humanity. The deepest connections we can make with ourselves and with others is through this "source" in which we encounter the very core of our humanity and that is shared with every other human being.
So, the Connie Imboden’s work is a majestic attempt to share the collective knowledge, the "restitution" of how much this sediment has influenced our cultural formation. Lines, forms, everything has a carnality expressed now in torment now in an almost mystical lightness and in this double interpretative register Imboden suggests to us the grandeur of one's personal experience, a formation that is reflected in ours and in which we see the same attention, as a concern in unraveling a warp in which the references of the great tradition are grafted dialectically with contemporary means and conceptualities in a close dialogue.
Giuseppe Cicozzetti
ph. Connie Imboden