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Ara GULER (Turchia)
ARA GULER
Il sole cala sul Bosforo con la stessa indulgenza di sempre, lento, al punto che, come amava dire Nazim Hikmet “pare che il sole, si attardi a scomparire per dare un ultimo sguardo alle meraviglie di İstanbul e imprimerle nella sua infuocata memoria”. Non sempre però la memoria di una città coincide con quella degli uomini, e İstanbul non fa eccezione. Ma mai a nessuna città è stata estirpata una vocazione millenaria, un tesoro identitario che vedeva İstanbul “ponte” tra due civiltà. Una politica muscolare, proterva e illiberale, chiusa nello stretto di un nazionalismo revanscista che incontra le pulsioni di una fede intransigente, ha soffocato le legittime richieste dei giovani turchi di avvicinarsi al mondo Occidentale; ma le piazze di İstanbul più che libertà hanno visto scorrere il sangue: il Bosforo, le cui sponde si fronteggiano da sentire gli odori di due Continenti ora sembra un Oceano le cui acque sono ostili. Alla luce dei mutamenti politico-sociali che hanno visto la Turchia allontanarsi dalle aspirazioni di fare ingresso nella moderna Europa, il lavoro del fotografo turco Ara Güler assumono un significato storico. La serie “İstanbul”, realizzata nella seconda metà del secolo scorso, oltre a un’indiscutibile testimonianza si impone all’attenzione contemporanea moltiplicando la sua già consistente vena romantica. La İstanbul di Ara Güler ha perdutoi contorni che la identificano come un “luogo geografico” per fare ingresso in quello che chiamiamo “luogo della memoria”, dove la città stessa, gli uomini, le cose risuonano tra echi di una nostalgia sempre viva. E se le immagini risuonano in noi vuol dire che toccano la carne viva della nostra memoria, stabilendo un nesso o, se preferite, ristabiliscono quel ponte distrutto, in cui riconoscere che da una parte all’altra, dall’Europa a quello che chiamiamo Asia Minore, i volti delle persone ci somigliavano così tanto da scambiarle con le nostre. In “İstanbul” cogliamo un aspetto a noi conosciuto, un neorealismo poetico che trasuda umanità, Ara Güler è un poeta che cattura immagini. Le sue fotografie sono un distillato di ossequi, non c’è immagine che non sia intrisa di un respiro men che rispettoso per ognuno dei soggetti raffigurati. Che siano pescatori, acquaioli, cestai, adulti o bambini a nessuno manca la giusta dose di rilievo. I loro volti ci affascinano, così come siamo avvolti dallo stesso mistero che essuda da un’atmosfera a tratti pervasa da una magia misteriosa, dove cupole e minareti dallo sfondo sorvegliano e sovrintendono una vita umile e fatta di piccole cose grandi come la vita. La “İstanbul” che Ara Güler ha voluto cantare non c’è più. Forse non ci sono più nemmeno i giovani protagonisti delle fotografie più struggenti: un’Europa bisognosa di mano d’opera li ha chiamati, più o meno nello stesso periodo in cui il fotografo scattava. E la storia, un’altra, si ripete. Respinti qualche secolo fa, i turchi ritornano in Europa non con le armi, ma con la tenacia dei “Gastarbeiter” e sopportando umiliazioni e miserie, mettono a poco a poco radici in una terra che conquistano con le loro fatiche. In molte città della Germania le classi scolastiche si popolano sempre più di bambini turchi (Berlino, si dice con una certa ironia, è una delle più popolose città turche), mentre l’Occidente affida alla denatalità le ragioni del proprio declino. In questo paradigma occorre cogliere il senso storico di quanto avviene oggi in una Turchia che ha scelto di chiudersi in sé e, al contempo, l’inesorabilità del percorso della Storia, la stessa che dopo aver visto il tentativo degli uomini di abbattere ponti ha invece coltivato e curato ognuno dei semi, protetto ogni singolo figlio, perché i ponti continuassero ad essere attraversati.
Giuseppe Cicozzetti
da “İstanbul”
foto Ara Güler
The sun falls on the Bosphorus with the same indulgence as ever, slow, to the point that, as Nazim Hikmet liked to say "it seems that the sun, is disappearing to take a last look at the wonders of Istanbul and impress them in its fiery memory". But not always the memory of a city coincides with that of men, and İstanbul isn’t an exception.
But never in any city has been eradicated a thousand-year vocation, an identity treasure that saw İstanbul "bridge" between two civilizations. A muscular, proterving and illiberal politics, closed in the strait of a revanchist nationalism that meets the impulses of an intransigent faith, has stifled the legitimate requests of the young Turks to approach the Western world; but the squares of İstanbul more than freedom have seen blood flow: the Bosphorus, whose banks face each other to feel the smells of two continents now seems an ocean whose waters are hostile. In light of the political and social changes that have seen Turkey move away from the aspirations to enter modern Europe, the work of the Turkish photographer Ara Güler takes on historical significance. The series "İstanbul", realized in the second half of the last century, as well as an indisputable testimony is imposed on contemporary attention by multiplying its already substantial romantic vein.
Ara Güler's İstanbul has lost outlines that identify it as a "geographical place" to enter what we call "place of memory", where the city itself, men, things resonate with echoes of an ever-living homesickness.
And if the images resonate in us it means that they touch the living flesh of our memory, establishing a link or, if you prefer, restore that destroyed bridge, in which to recognize that from one side to the other, from Europe to what we call Asia Minor, people's faces resembled us so much that they exchanged them with ours. In "İstanbul" we catch an aspect known to us, a poetic neorealism that exudes humanity, Ara Güler is a poet who captures images.
His photographs are a distillate of treats, there is no image that is not soaked with a breath that is respectful for each of the subjects depicted. Whether they are fishermen, water trappers, basket makers, adults or children, no one is missing the right amount of relief. Their faces fascinate us, as we are enveloped by the same mystery that exudes from an atmosphere sometimes pierced by a mysterious magic, where domes and minarets in the background watch over and oversee a humble life made of little things as big as life. The "İstanbul" that Ara Güler wanted to sing is gone.
Perhaps there are no longer even the young protagonists of the most poignant photographs: a Europe in need of labor has called them, more or less in the same period in which the photographer took. And history, another, repeats itself.
Rejected a few centuries ago, the Turks return to Europe not with arms, but with the tenacity of the "Gastarbeiter" and enduring humiliations and miseries, they gradually bring roots into a land that they conquer with their labors. In many German cities, school classes are increasingly populated with Turkish children (Berlin, it is said with a certain irony, is one of the most populous Turkey cities), while the West gives birth to the reasons for its decline. In this paradigm we need to grasp the historical meaning of what is happening today in a Turkey that has chosen to close itself and, at the same time, the inexorability of the path of History, the same that after seeing the men's attempt to break down bridges instead cultivated and cared for each of the seeds, protected every single child, so that the bridges continued to be crossed.
Giuseppe Cicozzetti
from “İstanbul”
ph. Ara Güler