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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Mario GIACOMELLI (1925-2000)            (IT)

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MARIO GIACOMELLI

Ha detto di sé: «Provo fastidio a sentirmi definire poeta, perché esistono i poeti veri. Allo stesso modo mi arrabbio quando mi chiamano fotografo, perché non sono nemmeno questo». Per noi, e lo diciamo con il massimo rispetto verso Mario Giacomelli (1925-2000), è al contempo poeta e fotografo. Anzi, come ha sottolineato Paolo Monti, un altro grande della fotografia «Giacomelli è tra i più grandi fotografi del nostro tempo. Sono certo che Eugene Smith, forse il più grande fotografo del mondo, firmerebbe volentieri molte sue fotografie di “Vita d’ospizio” e di “Un amore”. E anche Cartier-Bresson potrebbe far suoi alcuni “Pretini”». Questa dei “Pretini” è una storia che va raccontata. 1962. Giacomelli chiede e ottiene di trascorrere un anno all’interno di un seminario di Senigallia. La fede c’entra poco anzi, quasi nulla. Il fotografo è spinto da una curiosità quasi antropologica, voleva vedere e capire, per poi mostrare, come vivessero dei ragazzi in un luogo chiuso, lontano dalle seduzioni del mondo secolare e immersi in una vita di dedizione e preghiere. Giacomelli scatta ma non è soddisfatto. Dirà: «Quando mi sono messo a fotografare; facevo le foto ma, quando le stampe non venivano come dicevo io, preferivo gettare tutto. Il bianco, il nero, il mosso: sono tecniche che richiedono molta precisione e quando non si è convinti del risultato. Meglio buttare». O non stampare, conservare cioè provini impedendo che vedano la luce (intorno a questa scelta qualcuno, più tardi, si avventerà sui provini con fare da corsaro). Le prime fotografie dei “Pretini” non soddisfano Giacomelli. Manca qualcosa. Forse più di qualcosa. Manca, ad esempio – e questo è un fatto assai singolare per Giacomelli, straordinario sceneggiatore e regista di se stesso –, un copione, una precisa chiave di partenza. Questa arriva inaspettatamente in suo aiuto proprio da quei giovani seminaristi creduti votati a una vita contemplativa e priva di gioia che, offrendosi al gioco, nei momenti di svago e nelle ore della spensieratezza somigliano a tutti i ragazzi che desiderano esprimere la loro esuberanza giovanile. Giacomelli è pronto e in suo aiuto arriva dal cielo un particolare che lo aiuterà ad esprimere i tratti tipici della sua scrittura fotografica: la neve, «quel candore sapiente che all’improvviso decide ogni equilibrio e fa da paciere tra il nero e il bianco». La serie dei “Pretini”, che ufficialmente ha titolo “Io non ho mani che mi accarezzino il volto”, preso in prestito da una poesia di padre David Maria Turoldo, il solo che sapeva placare il sacro nascosto in Giacomelli, sembrano immagini fuori dal reale ma allo stesso tempo organizzano quasi autonomamente una rappresentazione magica della realtà. Il cosiddetto “balletto dei pretini” si compone in immagini dove il fascino dei contenuti raggiunge la leggerezza poetica della composizione fotografica. Per una volta Giacomelli crea una serie di inquadrature gioiose e festanti dietro le quali si avverte la mano della sua discreta e sapiente regia: la celebre sequenza dei pretini che “danzano” in un folle girotondo ritmato dal cadere dei fiocchi di neve, che sono impegnati in una “battaglia” con i bianchi proiettili; i pretini che giocano a pallone e che fanno rimbalzare verso l’alto un loro compagno, disteso sopra una coperta mentre saluta e sorride contento; i pretini che corrono sui prati per la pura gioia di scatenare le energie accumulate nei loro giovani corpi, oppure chiacchierano tra loro e fumano di nascosto quei sigari che Giacomelli stesso ha dato loro. E male gliene incorrerà perché, si narra, i superiori del seminario revocheranno il suo incarico. Ma ormai i “Pretini” hanno un loro ordine, il più grande poema della storia della fotografia, cadenzato sul ritmo altalenante dei bianchi e neri, è concluso. Di “Io non ho mani che mi accarezzino il volto”, attinta direttamente al sito a nome del fotografo compaiono quindici fotografie. Occorre considerarle ufficiali, le sole cioè che Giacomelli ha voluto mostrare. Sappiamo però che ne manca una; una al quale il fotografo era molto affezionato, la sua preferita e mai pubblicata. Ritraeva uno di questi giovani seminaristi durante la visita del padre. Il ragazzo, in lacrime, non capiva perché mai il padre lo avesse mandato lì, reclamando, mentre le lacrime scorrevano copiose, il suo diritto a vivere altrove la sua vita. Il padre, un umile contadino, lo aveva consegnato alla fede per sottrarlo alla miseria e alla fatica dei campi e impassibile, con uno sguardo duro, fermo, privo di compassione. Giacomelli si era trovato di fronte a una situazione così drammatica da arrestare la sua voglia di documentare e non ebbe mai il coraggio di sviluppare il negativo.

 

Giuseppe Cicozzetti

da “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” (“i Pretini”)

 

foto Mario Giacomelli

He said of himself: «I feel annoyed at being called a poet, because there are real poets. In the same way I get angry when they call me a photographer, because I am not even that». For us, and we say it with the utmost respect towards Mario Giacomelli (1925-2000), he is both a poet and a photographer. Indeed, as pointed out by Paolo Monti, another great photographer «Giacomelli is among the greatest photographers of our time. I am certain that Eugene Smith, perhaps the greatest photographer in the world, would gladly sign many of his photographs of "Hospice" and "A love". And also Cartier-Bresson could sign some "Young priests" too».

This of the "Young priests" is a story that must be told. 1962. Giacomelli asks and gets to spend a year inside a seminar in Senigallia. Faith has little or nothing to do with it. The photographer is driven by an almost anthropological curiosity, he wanted to see and understand, then to show, how boys lived in a closed place, away from the seductions of the secular world and immersed in a life of dedication and prayers.

Giacomelli shoots but is not satisfied. He will say: «When I started taking pictures; I took pictures, but when the prints didn't come as I said, I preferred to throw everything. White, black, rough: these are techniques that require a lot of precision and when you are not convinced of the result. Better to throw’em». Or do not print, that is to say keep specimens preventing them from seeing the light (around this choice someone, later, will pounce on the specimens with a corsair). The first photographs of the "Young priests" do not satisfy Giacomelli.

Something is missing. Maybe more than something. Missing, for example - and this is a very singular fact for Giacomelli, an extraordinary screenwriter and director of himself -, a script, a precise starting key. This unexpectedly comes to help him from those young seminarians believed to be devoted to a contemplative and joyless life who, by offering themselves to the game, in moments of leisure and in the hours of carefree, resemble all the boys who wish to express their youthful exuberance.

Giacomelli is ready and to his aid comes a detail that will help him to express the typical features of his photographic writing: the snow, «that wise whiteness that suddenly decides every balance and acts as a peacemaker between black and white». The "Young priests" series, which officially has the title "I have no hands to caress my face", borrowed from a poem by Father David Maria Turoldo, the only one who knew how to appease the sacred hidden in Giacomelli, seem images out of the real but at the same time they almost autonomously organize a magical representation of reality.

The so-called "young priestes ballet" is composed of images where the fascination of the contents reaches the poetic lightness of the photographic composition. For once Giacomelli creates a series of joyful and festive shots behind which he feels the hand of his discreet and wise direction: the famous sequence of the little priests who "dance" in a crazy girotondo punctuated by the falling of snowflakes, which are engaged in a "battle" with white bullets; the little children playing football and bouncing one of their comrades upwards, lying on a blanket while he greets and smiles happily; the little priests running along the lawns for the sheer joy of unleashing the energy accumulated in their young bodies, or chatting among themselves and secretly smoking those cigars that Giacomelli himself gave them.

And it will be bad for him because, it is said, the seminary superiors will revoke his office.

But now the "Young priests" have their own order, the greatest poem in the history of photography, paced on the swinging rhythm of whites and blacks, it is concluded. Of "I have no hands to caress my face", drawn directly from the site on the photographer's behalf, fifteen photographs appear. It is necessary to consider them official, the only ones that Giacomelli wanted to show. We know, however, that one is missing; one to which the photographer was very fond, his favorite and never published. It depicted one of these young seminarians during his father's visit.

The boy, in tears, did not understand why his father had sent him there, claiming, while tears flowed copiously, his right to live his life elsewhere. His father, a humble peasant, had handed him over to faith to save him from the poverty and fatigue of the fields and impassive, with a hard, firm look, devoid of compassion. Giacomelli was faced with such a dramatic situation that he stopped his desire to document and never had the courage to develop the negative.

 

Giuseppe Cicozzetti

da “I have no hands to caress my face” (also known as “Young priests”)

 

foto Mario Giacomelli

 

http://www.mariogiacomelli.it/

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