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Caio Mario GARRUBBA (IT)
CAIO MARIO GARRUBBA
Goffredo Parise lo definì “il fotografo del comunismo”, ma noi crediamo che a Caio Mario Garrubba (1923-2015) più che al socialismo reale fosse interessato al reale che attraversa la vita delle persone. La storia accade: più tardi si studia ma intanto lascia i suoi effetti, i suoi segni e questi non desiderano altro che essere raccontati. Garrubba appartiene alla sua generazione, quella che assorbì il fascino vertiginoso della speranza; una speranza laica, ovviamente, socialista ma che ha saputo innervare l’impegno con una coerenza non negoziabile. Nelle sue fotografie la pietas sposa il documento, e le immagini sono mirabili documenti nei quali scoprire l’esistenza di un proletariato già globalizzato più di mezzo secolo prima del cosiddetto villaggio globale. Cina, Russia, Polonia, Cecoslovacchia, le due Germanie, ma anche Gli Stati Uniti, il Brasile e l’amatissima Spagna. Viaggiò molto Garrubba; un viaggio errabondo alla ricerca di uno sguardo, di un volto che sapesse con una sola espressione ricordargli – e ricordare a tutti noi – che gli esclusi sono tali a ogni latitudine. Ma non c’è tristezza nelle sue fotografie. Anzi, c’è quella rispettosa ispirazione bressoniana verso momenti dove forse non accade nulla, ma al contempo è la vita stessa a essere celebrata e a dispetto di qualunque accadimento. Forse è per questo che Cartier-Bresson gli propose di entrare in Magnum ma, in ossequio al suo desiderio di libertà, Garrubba ringraziò e rifiutò. Eppure il Mito amava una sua fotografia, quella scattata a Mosca nel 1957. Come molte delle fotografie di Garrubba i soggetti sono colti “nell’inconcludenza del vivere”, in un quotidiano cioè che lascia all’osservatore la spiazzante e affascinante facoltà di comprendere cosa stia accadendo e perché sono lì. Questa volta, in questa fotografia, a colpire la nostra attenzione, a catturarla e blindarla al centro esatto dell’immagine, è una creatura bianca come la neve, una colomba che non vuol saperne di lasciare il comodo rifugio di una valigia. E noi, davanti a questa immagine ci incuriosiamo esattamente come quel giovane che sulla destra fissa il volatile riluttante. La pietas, abbiamo detto, non ha mai abbandonato l’animo di Garrubba. Forse è una questione geografica, o una sensibilità assegnata alla nascita e coltivata come un fiore, chi lo sa? ma quanto è faticoso vivere già nelle strade della sua Napoli non dimenticherà più come sono fatti gli occhi intrisi d’offese e orgoglio, né più scorderà le voci di chi è stato condannato da una scommessa che la vita ha perduto contro il destino o la storia. Ma su quelle strade, sulle strade di tutto il mondo, insieme a paure e speranze scorre l’umanità. Così dalla Cina (Garrubba è il secondo reporter, dopo Cartier-Bresson a visitarla) ci arrivano fotografie che nella loro potenza esprimono molto più di un trattato socio-politico. È il 1959, e la Cina maoista ci appare più lontana della Luna, ma nel vezzo di due giovani al ballo, nell’affollata carrozza di lavoratori come nei bambini rigattieri, affiora qualcosa di familiare, che li avvicina a noi. Caio Mario Carrubba voleva che le sue fotografie si prestassero a più interpretazioni, che non vi abitasse cioè quel timbro apodittico che in qualche maniera esclude l’osservatore: le sue fotografie vanno guardate, esplorate, persino respirate. E tutte rivalutate, proprio come lui, proprio come il suo lavoro ingiustamente dimenticato dopo avere avuto la ribalta di Life, di quella palestra d’intelletto del Mondo di Pannunzio, Stern, Paris Match, Le Nouvelle Observatuer. Oggi abbiamo una grande occasione per rendergli omaggio. Una mostra a Palazzo Merulana in Roma, organizzata dall’Archivio Storico dell’Istituto Luce e curata da Emiliano Guidi e Stefano Mirabella, dal 9 ottobre al 28 novembre 2021, ci offre la possibilità di accostarci al lavoro di uno tra i più grandi reporter italiani e, detto senza polemica, molto più conosciuto e apprezzato all’estero che in Italia, come spesso accade a chi è grande davvero.
Giuseppe Cicozzetti
foto Caio Mario Garrubba
Goffredo Parise called him "the photographer of communism", but we believe that Caio Mario Garrubba (1923-2015) was more interested in reality than in real socialism. The story happens: later it is studied but in the meantime it leaves its effects, its signs and they want nothing more than to be told. Garrubba belongs to his generation, the one that absorbed the dizzying charm of hope; a secular hope, obviously socialist, but which has been able to innervate the commitment with a non-negotiable consistency. In his photographs, pietas marries the document, and the images are admirable documents in which to discover the existence of a proletariat already globalized more than half a century before the so-called global village. China, Russia, Poland, Czechoslovakia, the two Germanys, but also the United States, Brazil and the beloved Spain. Garrubba traveled a lot; a wandering journey in search of a gaze, a face that knew with a single expression to remind him - and remind us all - that the excluded are such at every latitude. But there is no sadness in his photographs. Indeed, there is that respectful Bressonian inspiration towards moments where perhaps nothing happens, but at the same time it is life itself that is celebrated and in spite of any event. Perhaps this is why Cartier-Bresson proposed to him to join Magnum but, in deference to his desire for freedom, Garrubba thanked and refused. Yet the Myth loved a photograph of him, the one taken in Moscow in 1957. Like many of Garrubba's photographs, the subjects are caught "in the inconclusiveness of living", in a newspaper that leaves the observer with the surprising and fascinating ability to understand what is happening and why they are there. This time, in this photograph, what strikes our attention, captures it and locks it in the exact center of the image, is a snow-white creature, a dove that doesn't want to leave the comfortable refuge of a suitcase. And we, in front of this image, are intrigued exactly like that young man who stares at the reluctant bird on the right. Pietas, we have said, has never left Garrubba's soul. Maybe it's a geographic issue, or a sensitivity assigned to birth and cultivated like a flower, who knows? but how tiring it is to live already in the streets of his Naples, he will no longer forget how his eyes are made of offense and pride, nor will he forget the voices of those who have been condemned by a bet that life has lost against destiny or history. But on those roads, on the roads of the whole world, humanity flows along with fears and hopes. But on those roads, on the roads of the whole world, humanity flows along with fears and hopes. So from China (Garrubba is the second reporter, after Cartier-Bresson to visit it) we get photographs that in their power express much more than a socio-political treatise. It is 1959, and Maoist China appears to us farther than the Moon, but in the habit of two young people at the dance, in the crowded carriage of workers as in the second-hand children, something familiar emerges, which brings them closer to us. Caio Mario Carrubba wanted his photographs to lend themselves to multiple interpretations, that is, that apodictic stamp that somehow excludes the observer did not live there: his photographs must be looked at, explored, even breathed. And all re-evaluated, just like him, just like his work unjustly forgotten after having had the limelight of Life, of that gym of intellect of the World of Pannunzio, Stern, Paris Match, Le Nouvelle Observatuer. Today we have a great opportunity to pay homage to him. An exhibition at Palazzo Merulana in Rome, organized by the Historical Archive of the Istituto Luce and curated by Emiliano Guidi and Stefano Mirabella, from October 9 to November 28, 2021, offers us the opportunity to approach the work of one of the greatest Italian reporters and, said without controversy, much better known and appreciated abroad than in Italy, as often happens to those who are really great.
Giuseppe Cicozzetti
ph. Caio Mario Garrubba