FOTOTECA SIRACUSANA
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Santolo FELACO (IT)
SANTOLO FELACO
Ogni città somiglia ai suoi abitanti. Nel bene e nel male. E poiché essi cambiano col cambiare della Storia anche le città mutano il loro aspetto. Raccontare un città come Roma non è facile quando si vogliono evitare i “topos” di una narrazione convenzionale, in immagini cioè che soddisfino l’affollarsi di luoghi comuni visivi. Sarebbe come ricalcare i tipi di un romanzo letto più volte, servirsi di una scrittura priva di originalità che si accoda a una specie di mainstream omologato e rassicurante. C’è dell’altro. Molto altro. In ogni città c’è un lato, o anche molti, che rimane segreto, quasi dimenticato e lontano da una possibile narrazione. Eppure, tra l’esaltazione celebrativa di una città che vive della sua straordinaria e strabordante eredità, c’è uno spazio che va occupato dalla nostra attenzione e che non può né deve essere escluso qualora si voglia raccontare come a fianco della grandiosità viva uno scenario negletto, un’umanità apparentemente priva di voce che interagisce ai confini del nostro interesse. Voci, volti, luoghi che insieme, se saputi ascoltare, raccontano la vita vera di una città. Di ogni città. Con “Caput Mundi” il fotografo Santo Felaco ha scelto questa strada. Scostandosi dalle trappole di un’iconografia idealizzata, racconta una città in forma di “presenze” oblique, recuperando gli inciampi considerati erronei e restituendo loro dignità di racconto. “Caput Mundi” – nel cui titolo scorgiamo una felice provocazione – raccoglie frammenti, visioni e li imbastisce all’interno di un intreccio di percezioni la cui vocazione è stabilire una sequenza in cui lo specifico immaginario è superato e versato nel territorio della metafora, sicché Roma perde momentaneamente il primato narrativo per diventare il racconto d’ogni città. Santolo Felaco ci introduce a un racconto sotterraneo, invitandoci a scorgere l’insolito apparire di cose, di spazi, di realtà che una volta riconosciute (si osservino le foto dei manifesti lacerati che ricordano involontariamente le opere di Mimmo Rotella) si insediano nella nostra percezione per stabilirvisi, quasi in forma risarcitoria. “Caput Mundi” è un canto notturno e sbilenco, dove l’accenno conta più della descrizione completa (saremo noi osservatori a completarne il senso), e come un gioco di rimandi ci domandiamo chi siano quei volti apparentemente catturati dalla velocità dello scatto e (quasi) disseminati all’interno di una composizione che vuole essere quanto più spontanea. Ma non è la casualità la sola prerogativa ricercata da Santolo Felaco, sebbene un’estemporanea freschezza aleggi di foto in foto: il suo è un lavoro appassionato e incisivo in cui l’ossequio a una grande città è moderato dagli sviluppi della cronaca. E ne ha completo diritto, perché solo chi ama ha anche il diritto a una critica. Ma quest’ultimo aspetto, non secondario, è certamente sorpassato da una testimonianza che è insieme il tentativo di restituzione a quello che una voce non ha. Ecco dunque l’apparire di statue, fotografate con la stessa attenzione con cui si fotografano gli esseri umani, che sembrano ritrarsi davanti all’obiettivo o, altre, colte nella furia di un alterco farsi materia viva così come viva è l’imperitura staticità dei manufatti, primato che contendono ai passanti, alle strutture scheletriche delle costruzioni periferiche e ai caseggiati della piccola borghesia del dopoguerra. “Caput Mundi” è un lavoro corale, plurale nella distribuzione di ruoli e significati tanto che Roma, come si è detto, diviene metafora d’ogni città e d’ogni luogo in cui l’uomo è chiamato a interagire con il suo intorno. E dunque “Caput Mundi” si fa universale, e noi lo riconosciamo come qualcosa che parla a noi, di noi.
Giuseppe Cicozzetti
da “Caput Mundi”
foto Santolo Felaco
Every city resembles its inhabitants. For better or for worse. And because they change as history changes, cities also change their appearance. Telling a city like Rome it ain’t easy when you want to avoid the "topos" of a conventional narrative, that is, images that satisfy the crowds of visual clichés. It would be like tracing the types of a novel read several times, using a writing lacking in originality that fits into a kind of standardized and reassuring mainstream. There is more. Much more. In each city there is a side, or even many, that remains secret, almost forgotten and far from a possible narration. And yet, among the celebratory exaltation of a city that lives on its extraordinary and overwhelming heritage, there is a space that must be occupied by our attention and that cannot and must not be excluded if we want to tell how a scenery lives alongside neglected, a seemingly voiceless humanity that interacts on the borders of our interest. Voices, faces, places that together, if known how to listen, tell the true life of a city. Of every city. With "Caput Mundi" the photographer Santo Felaco walk this path. Moving away from the traps of an idealized iconography, he recounts a city in the form of oblique "presences", recovering the stumbles considered erroneous and restoring their dignity as stories. "Caput Mundi" - in whose title we see a happy provocation - collects fragments, visions and bases them in a tangle of perceptions whose vocation is to establish a sequence in which the specific imaginary is overcome and poured into the metaphor territory, so that Rome momentarily loses its narrative primacy to become the story of every city. Santolo Felaco introduces us to an underground story, inviting us to see the unusual appearance of things, of spaces, of realities that once recognized (we observe the photos of torn posters that unintentionally recall the works of Mimmo Rotella) settle in our perception to settle there, almost in compensation form. "Caput Mundi" is a nocturnal and lopsided chant, where the hint counts more than the complete description (we will be the observers to complete the meaning), and as a game of cross-references we wonder who those faces apparently caught by the speed of the shot are and (almost) scattered within a composition that wants to be as spontaneous as possible. But randomness it ain’t the only prerogative sought by Santolo Felaco, although an extemporaneous freshness hides with photos in photos: his is a passionate and incisive work in which the homage to a big city is moderated by news developments. And he has complete right, because only those who love also have the right to criticism. But this last aspect, not secondary, is surely surpassed by a testimony that is at the same time the attempt to return to what a voice doesn’t have. Here then is the appearance of statues, photographed with the same attention with which people are photographed, which seem to retract in front of the lens or, others, caught in the fury of an altercation, become living material as well as the imperious static nature of the artifacts, the primacy of the passers-by, the skeletal structures of peripheral buildings and the buildings of the post-war petty bourgeoisie. "Caput Mundi" is a choral work, plural in the distribution of roles and meanings so that Rome, as we have said, becomes a metaphor for every city and every place in which man is called to interact with his surroundings. And so "Caput Mundi" becomes universal, and we recognize it as something that speaks to us, about us.
Giuseppe Cicozzetti
from “Caput Mundi”
ph. Santolo Felaco