FOTOTECA SIRACUSANA
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SCRIPTPHOTOGRAPHY
Gabriele CROPPI (Italia)
GABRIELE CROPPI
Non sappiamo, come afferma Nietzsche, se Dio è morto. Razionalmente, qualora si sostiene il suo decesso, occorre convenire della sua passata esistenza. Questa è materia per la filosofia delle religioni, che dopo la Shoah ha suscitato l’interesse di molti pensatori ebrei. Meglio stare nel limbo del dubbio, nel piano scivoloso e affascinante delle speculazioni filosofiche. Hans Jonas in ‘Il pensiero di Dio dopo Auschwitz’ afferma che “Dio non è perfettamente onnipotente”, indicando una via per conciliare l’esistenza di Dio con il problema del male. Resta da stabilire il perché dell’assenza di Dio durante lo sterminio nazista. Martin Buber in ‘L’eclissi di Dio’ sostiene che si è eclissato perché tra Lui e noi si è frapposto il nostro Ego – tesi tra l’altro ripresa da Sergio Quinzio retrodatando la negazione parziale dell’onnipotenza divina già all’atto della creazione umana in quanto “la creazione dell’uomo libero ha significato che la possibilità dell’errore, il peccato, la colpa e l’ingiustizia entrassero nel mondo”. Materia, si diceva, per la filosofia. La fotografia ha altro da risolvere. E lo sa bene Gabriele Croppi. Il primo inciampo è concettuale: come risolvere la crisi estetica, come cioè raccontare una tragedia dell’Umanità evitando che le “concessioni estetiche” finiscano per innervare di superfluo la cruda narrazione dell’oggettivo. Se però – e a questo la fotografia ci ha abituati – persino nell’orrore è contenuta una “estetica” essa va perseguita, ricercata e tradotta in un linguaggio espressivo che inquadri un episodio nella giusta dimensione narrativa. L’universo concentrazionario, la drammatica esperienza della Shoah è stata raccontata, e continua a esserlo sebbene con il tempo siano cambiate le prospettive. Ha detto Antoine D’Agata, a proposito del suo lavoro su Auschwitz: “non devo fare fotografie per paura di lasciare tracce o prove materiali. Questo è stato fatto prima, durante e dopo la liberazione del campo”. Fotografare oggi la “memoria della Shoah” dunque significa da un lato entrare nel territorio invisibile e concreto della “post-memoria”, “là dove, come sostiene Marianne Hirsch, si agita la capacità di rivivere il dramma dello sterminio da parte delle generazioni future”. Gabriele Croppi, sul finire degli anni Duemila, è stato al centro di questo dilemma che, insieme, rappresenta un’eredità da mantenere viva, come l’ingresso nei giorni della vita di una nuova vitale consapevolezza. Conoscere, ha detto qualcuno, è essere parte. Il sapere stana. Solo un anno prima Croppi è a Linz. Un lavoro concluso in fretta gli lascia il tempo per spingersi fino a Mauthausen, all’abisso dell’orrore. Ne uscirà cambiato. Le ferite della tragedia, dell’insensatezza criminale che attraversò l’Europa nella prima metà del secolo scorso, erano lì, intatte, incancellabili, pronte a smuovere dal profondo quel “pianto vuoto” di lacrime versate senza colpa se non quella di essere testimone della brutalità dell’uomo sull’uomo, del crollo della logica, della fine della pietà. Croppi intraprende un viaggio. Si direbbe un viaggio iniziatico, alla scoperta delle proprie emozioni nei luoghi di morte, quasi a stabilire il livello di risonanza emotiva che quei lager imprimono nella coscienza d’ognuno di noi. Dachau, Buchenwald, Majdanek, Treblinka, Auschwitz, i luoghi dell’indicibile sofferenza si sommano alle visioni contrastanti delle città, Berlino e Cracovia, teatri dell’intolleranza, del lutto, della morte. Immaginiamo la frustrazione. E forse è in questo annichilimento che Croppi trova la sua lingua; lui, fotografo attento alla ricerca (chi segue Scriptphotography conosce le sue affascinanti ‘metafisiche urbane’), riprende il tema sociale e lo affronta con lo stile del reporter. Il suo linguaggio è secco, asciutto e visionario, segno di una risonanza riuscita, che ha avuto ascolto nella profondità dell’essere che ne guiderà la mano. Nel 2009 il lavoro di Gabriele Croppi esce con un titolo secco, preciso e lontano da ogni deroga: ‘Shoah’. Le fotografie si concentrano su dettagli, su visioni talvolta vicine più a restituire un’intima impressione che al desiderio di descrizione e nel cui forte contrasto ravvisiamo la stessa forza emotiva che ha agitato la visione del fotografo. Tutto appare con la chiarezza di pretende d’essere narrato, tutto appare con a forza di una voce nuova che sopraggiunge e pretende di sommarsi alle altre, perché non c’è fine al racconto né può esserci. ‘Shoah’ non è soltanto il racconto dell’orrore, è un percorso a ritroso, come se Croppi avesse deciso di mettersi a nudo e saggiarne le ripercussioni emotive; e poi, con altrettanta onestà, avesse voluto renderci partecipi di un risultato intimo, personale che, a guardare bene, ci sentiamo di condividere fino a farlo nostro. ‘Shoah’ è un lavoro necessario, un lavoro letterario per immagini. Una preziosità testimoniale a cui diamo il benvenuto.
Giuseppe Cicozzetti
da “Shoah”
foto Gabriele Croppi
We don’t know, as Nietzsche says, if God is dead. Rationally, if someone support his death, so we must agree on your past existence. This is a matter for the philosophy of religions, which after the Holocaust has aroused the interest of many Jewish intellectuals.
Better to be in the limbo of doubt, in the slippery and fascinating plane of philosophical speculations. Hans Jonas in 'The Concept of God after Auschwitz' states that "God is not perfectly omnipotent", indicating a way to reconcile the existence of God with the problem of evil. The reason for the absence of God during the Nazi extermination remains to be established.
Martin Buber in 'Eclipse of God' claims that he eclipsed because our Ego was interposed between Him and us - a thesis taken up by Sergio Quinzio, backdating the partial negation of divine omnipotence already at the moment of creation human because "the creation of the free man has meant that the possibility of error, sin, guilt and injustice entered the world".
Matter, it was said, for philosophy. Photography has more to solve. And Gabriele Croppi knows this well. The first stumbling block is conceptual: how to solve the aesthetic crisis, how to tell a tragedy of Humanity, avoiding that the "aesthetic concessions" end up unnerving the raw narrative of the objective. If, however - and photography has accustomed us - even in horror it’s contained an "aesthetic" it must be pursued, researched and translated into an expressive language that frames an episode in the right narrative dimension.
The concentration camp universe, the dramatic experience of the Shoah has been told, and continues to be so although the perspectives have changed over time. Said Antoine D'Agata, about his work on Auschwitz: "I do not have to take pictures for fear of leaving traces or material evidence. This was done before, during and after the liberation of the camp ".
Photographing today the "memory of the Shoah" therefore means on the one hand entering the invisible and concrete territory of the "post-memory", "where, as Marianne Hirsch says, the capacity to relive the drama of extermination by future generations is stirred up ". Gabriele Croppi, at the end of the 2000s, was at the center of this dilemma which, together, represents an inheritance to keep alive, like the entry into the days of life of a new vital awareness. To know, someone said, is to be part of it.
Knowledge drive out. Only a year before Croppi is in Linz. A hurried job leaves him time to go to Mauthausen, to the abyss of horror. It will come out changed. The wounds of the tragedy, the criminal senselessness that crossed Europe in the first half of the last century, were there, intact, indelible, ready to move from the depths that "empty cry" of tears shed without guilt if not to be witness of the brutality of man on man, of the collapse of logic, of the end of piety.
Croppi embarks on a journey. It would seem an initiatic journey, to discover their emotions in places of death, almost to establish the level of emotional resonance that those lagers imprint in the consciousness of each of us. Dachau, Buchenwald, Majdanek, Treblinka, Auschwitz, the places of unspeakable suffering are added to the contrasting visions of cities, Berlin and Krakow, theaters of intolerance, of mourning, of death. We imagine frustration.
And perhaps it is in this annihilation that Croppi finds his language; he, a careful research photographer (who follows Scriptphotography knows his fascinating 'urban metaphysics'), takes up the social theme and deals with the style of a reporter. His language is dry, dry and visionary, a sign of a successful resonance, which has listened to the depth of being that will guide his hand.
In 2009 Gabriele Croppi’s work comes out with a dry, precise and far from any exception: 'Shoah'. The photographs focus on details, on visions that are sometimes close to each other, giving a more intimate impression than the desire for description and in whose strong contrast we see the same emotional force that has stirred the vision of the photographer. Everything appears with the clarity of claims to be narrated, everything appears with the force of a new voice that arrives and pretends to add itself to the others, because there’s no end to the story nor can it be there.
'Shoah' isn’t just the horror story, it’s a backward journey, as if Croppi had decided to get naked and test the emotional repercussions; and then, just as honestly, he wanted to make us share in an intimate, personal result that, to look good, we feel we share to make it our own. 'Shoah' is a necessary work, a literary work for images. A testimonial preciousness that we welcome.
Giuseppe Cicozzetti
from “Shoah”
ph. Gabriele Croppi