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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Keith  CARTER                                                                             (USA) 

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KEITH CARTER

La fotografia è un cammino che conduce all’originalità; uno è tanto più originale e peculiare quanto più conosce il cammino percorso da altri prima lui. Possiamo affermare che il solco creativo in cui opera il fotografo statunitense Keith Carter è nel pieno rispetto di una tradizione che, una volta affermata la sua identità, non ha paura di lasciarsi connettere con altri linguaggi, perché l’identità è una ricerca sempre aperta e l’ossessiva difesa delle origini può essere una repressiva schiavitù. Tradizione e contemporaneo convivono rispettosamente nelle serie di Keith Carter come due stimati dirimpettai che si guardano con elegante deferenza; e dunque la fotografia, una volta liberatasi dalla sua natura “letterale” ha introiettato qualità più soggettive ed emotive. Carter guarda al passato senza dimenticare che è figlio del suo tempo e dunque è in questa ambivalenza che comprendiamo come i suoi lavori non siano semplicemente degli hommage a una tecnica di rappresentazione, il collodio, né, come potrebbe sembrare dei d’après di questo o tal altro fotografo pioniere (su tutti, in questo caso, vanno ricordati E. J. Bellocq e con un ardito salto temporale Jacqueline Roberts) quanto invece un preciso metodo espressivo che rivaluta una contenutistica d’essere incardinata dentro una specifica cornice. Le fotografie di Keith Carter esplorano relazioni che possono essere descritte come senza tempo, enigmatiche e mitologiche. Egli trae ispirazione da ogni cosa lo circondi, dal mondo animale, dalla cultura popolare, dal folklore e persino dagli spetti più propri della religione. Carter quindi presenta fotografie che cercano di sviluppare e riflettere significati nascosti tra le pieghe del reale affrontando il rapporto di relazioni che intrecciamo tra le nostre idee di un luogo, del tempo, della memoria e del desiderio e del rimpianto. Il suo è un linguaggio sospeso tra un lirismo magico e un surrealismo allusivo e compatto dove taluni elementi vi ricorrono (si pensi agli animali) per intessere le fila di un grandioso ordito simbolista, in cui ciò che appare può essere lontano dal suo significato. Eppure Carter con un escamotage visivo, che poi è la sua stessa cifra stilistica, ci suggerisce che non occorre “traversar lo Stige e il Cocito per quietar l’animo”. Se osservate le fotografie si vedrà come la profondità di campo è quasi azzerata: tutto si svolge lì, davanti i nostri occhi, non in altrove sapientemente evaporato per non contendere attenzione al soggetto, per non distoglierci dal segno significante – allontanando così le tentazioni pittorialiste. Così come significante sanno essere delle semplici macchie sul manto d’un cavallo perché in noi si agitino prospettive mitologiche non meno seducenti e misteriche d’un ragazzo che guarda allontanarsi la sagoma di un adulto o, un altro corrucciarsi al cospetto d’un corvo sulla staccionata. Il registro simbolico non si ferma qui, continua nei volti pensosi e gravi dei bambini (nel ritratto chiamato "Equestrian" cogliamo la stessa ieratica astrazione della cameriera al bar delle Folies-Bergère di Eduard Manet) così misteriosamente attraversati da un vissuto sfuggente agli adulti; nel dialogo con un cielo profondissimo; negli strettissimi dettagli. Keith Carter tesse storie convulse ed enigmatiche in cui già il senso della composizione, l’ordito visivo è una componente fondamentale di racconto gravido di segni. Quando la realtà oggettiva non è sufficiente per spiegare quanto ci è intorno è necessario inventarne una nuova.

 

Giuseppe Cicozzetti

da “Holding Venus”; “A Certain Alchemy”;  “Fireflies”; “Ezekiel’s Horse”

 

foto Keith Carter

 

https://www.keithcarterphotographs.com/

 

 

Photography is a path that leads to originality; one is all the more original and peculiar the more he knows the path taken by others before him. We can affirm that the creative furrow in which the American photographer Keith Carter operates is in full respect of a tradition that, once its identity is affirmed, is not afraid of allowing itself to be connected with other languages, because identity is an always open search and the obsessive defense of the origins can be a repressive slavery.

Tradition and contemporaneityrespectfully coexist in the series of Keith Carter as two esteemed neighbors who look at each other with elegant deference; and therefore photography, once freed from its "literal" nature, has introjected more subjective and emotional qualities.

Carter looks to the past without forgetting that he is a child of his time and therefore it’s in this ambivalence that we understand how his works are not simply hommages to a technique of representation, collodion, nor, how could it seem d'affres of this or such another pioneer photographer (above all, in this case, E.J. Bellocq should be mentioned and with a daring temporal leap Jacqueline Roberts) but rather a precise expressive method that re-evaluates a content of being hinged within a specific frame.

Keith Carter's photographs explore relationships that can be described as timeless, enigmatic and mythological. He draws inspiration from everything that surrounds him, from the animal world, from popular culture, from folklore and even from the most proper aspects of religion.

Carter then presents photographs that seek to develop and reflect meanings hidden among the folds of reality by dealing with the relationship of relationships that we weave between our ideas of a place, of time, of memory and of desire and regret. His is a language suspended between a magic lyricism and an allusive and compact surrealism where some elements resort to them (think of animals) to weave the lines of a grandiose symbolist warp, in which what appears may be far from its meaning.

Yet Carter with a visual trick, which is his own style, suggests that it is not necessary to "cross the Styx and the Cocytus to calm the soul". If you look at the photographs you will see how the depth of field is almost zero: everything takes place there, in front of our eyes, not elsewhere wisely evaporated to avoid paying attention to the subject, not to distract us from the sign signifier – removing in this way any pictorialist temptation.

Just as significant they know how to be simple spots on the mantle of a horse so that in us mythological perspectives can be stirred no less seductive and mysterious than a boy who looks away from the silhouette of an adult or another frown in the sight of a crow on a fence.

The symbolic register does not stop there, it continues in the pensive and serious faces of children (in the portrait called "Equestrian" we capture the same hieratic abstraction of the waitress at the bar of the Folies-Bergère by Eduard Manet) so mysteriously crossed by an elusive experience of adults; in dialogue with a very deep sky; in the very narrow details.

Keith Carter weaves convulsive and enigmatic stories in which already the sense of composition, the visual warp is a fundamental component of a story full of signs. When objective reality is not enough to explain what is around us it is necessary to invent a new one.

 

Giuseppe Cicozzetti

from “Holding Venus”; “A Certain Alchemy”;  “Fireflies”; “Ezekiel’s Horse”

 

ph. Keith Carter

 

https://www.keithcarterphotographs.com/

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