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Mario CARNICELLI (IT)
MARIO CARNICELLI
Accade talvolta, ed è più frequente di quanto non si creda, che vi siano reporter la cui sensibilità in qualche modo determina la cifra del loro stesso lavoro. Un freno, forse dettato dal pudore o, più probabilmente, dalla consapevolezza che proviene dall’essere momentaneamente testimoni del costume di una società di cui fino a quel momento – nel momento cioè in cui nasce un reportage – si conoscevamo echi lontani ma al contempo assai vicini. E’ il caso di Mario Carnicelli, fotografo italiano che nel 1966 visita gli Stati Uniti dopo aver vinto la borsa di studio di un concorso fotografico. L’America che appare agli occhi di Carnicelli, o forse è meglio dire l’America che vuole si presenti ai suoi occhi, è quella distante dal nostro immaginario collettivo, un America “minore” che nella sua quotidianità assume a sé due lati della stessa consapevolezza. Ancora oggi infatti un visitatore che si rechi per la prima volta negli Stati Uniti, conserverà lo stupore di viaggiare in un luogo in qualche maniera conosciuto anche se non vi ha mai messo piede prima; non solo, ma la “ricerca della conferma”, recarsi cioè fisicamente nei luoghi che mille e più volte abbiamo visto e che ormai appartengono a una conoscenza globale, non attenua lo stupore. Mario Carnicelli ha solo 29 anni quando intraprende un viaggio – ne seguiranno altri – nella sua personale “ricerca della conferma”, ma con un grado di sensibilità, una distinzione personale prima che professionale che lo indurrà a ritenersi un estraneo che ruba occasionalmente episodi della società americana. Ne è così convinto che nel 1967 al ritorno del viaggio americano, quando allestisce la mostra la intitolerà “I’m sorry, America!”, una dichiarazione di scuse che proviene, come dirà lo stesso autore “dal provare a comprendere una società che è tutto e nulla allo stesso tempo”. L’America di Carnicelli è molto distante dall’epos raccontata da altri illustri colleghi statunitensi ma è attraversata da un’indiscutibile sensibilità personale che pone il suo focus nella narrazione del dettaglio, nella descrizione delle piccole cose che poi sono le stesse che innervano la vita di una società. E’ lì che occorre cercare la cifra del lavoro di Carnicelli, nella lateralità della scelta a cui affidare le voci, gli sguardi. E lo sgomento. Così come nel 1964, quando racconta per immagini il turbamento e il dolore della folla commossa che partecipa ai funerali di Palmiro Togliatti, un reportage che ancora adesso mantiene intatto il suo assoluto valore contemporaneo. Con la stessa delicata attenzione Carnicelli fotografa il paesaggio umano americano in punta di piedi; e con la discrezione che gli è propria cattura momenti brevi e autentici: uomini e donne in un parco, lavoratori in fila per un’occupazione, giovanissimi venditori di quotidiani, uomini e donne in attesa di un autobus, operai in attesa di istruzioni, e un ragazzino appoggiato a un cartello che strizza gli occhi al sole proprio mentre è fotografato. Poi basta. Qualche lavoro da freelance per giornali e riviste italiane ma il suo tempo è dedicato a mandare avanti un’attività di sviluppo e stampa a Firenze. Le foto, tutte le sue foto, sono riposte in una cantina e là vi rimangono per quasi cinquant’anni. Fino all’anno scorso, quando cioè Carnicelli mostra il suo lavoro, migliaia di negativi, alla curatrice e fotografa Bärbel Reinhard. E’ una folgorazione. Le fotografie del viaggio americano sono ordinate e curate criticamente e finalmente confluite quest’anno in un libro fotografico dal titolo “American Voyage” che ha accompagnato la mostra alla David Hill Gallery di Londra. Carnicelli non deve più chiedere scusa all’America. Non ha mai dovuto. Se mai dovremmo essere noi a farlo. Con lui.
Giuseppe Cicozzetti
da “American Voyage”
foto Mario Carnicelli
It sometimes happens, and it is more frequent than we think, that there are reporters whose sensitivity somehow determines the figure of their own work. A brake, perhaps dictated by modesty or, more likely, by the awareness that comes from being momentarily witnesses of the custom of a society of which until then - in the moment when a report is born - we knew distant but at the same time very distant echoes.
This is the case of Mario Carnicelli, an Italian photographer who in 1966 visited the United States after winning a scholarship for a photo contest. The America that appears in the eyes of Carnicelli, or perhaps it is better to say the America he wants to present in his eyes, is that far from our collective imagination, a "minor" America that in its daily life takes on two sides of itself awareness. Even today, in fact, a visitor who goes for the first time to the United States, will keep the amazement of traveling to a place in some known manner even if he has never set foot there before; not only that, but the "search for confirmation", that is physically going to the places that we have seen a thousand times and that now belong to a global knowledge, doesn’t mitigate the amazement.
Mario Carnicelli is only 29 years old when he embarks on a journey - others will follow - in his personal "research of confirmation", but with a degree of sensitivity, a personal distinction before professional that will induce him to consider himself a stranger who occasionally steals episodes of society American. He is so convinced that in 1967 the return of the American trip, when he set up the exhibition titled "I'm sorry, America!", a statement of excuse that comes, as the author says "from trying to understand a company that is everything and nothing at the same time ".
Carnicelli's America is very distant from the epos told by other famous American colleagues but it is crossed by an unquestionable personal sensitivity that places its focus on the narration of detail, in the description of the little things that are then the same ones that innervate life of a company. It is there that we need to look for the sum of Carnicelli's work, in the laterality of the choice to which to entrust the voices, the looks. And the dismay.
As in 1964, when he recounts in pictures the turmoil and the pain of the moved crowd that participates in the funeral of Palmiro Togliatti, a reportage that still maintains its absolute contemporary value intact. With the same delicate attention, Carnicelli photographs the American human landscape on tiptoe; and with his own discretion he catches short, authentic moments: men and women in a park, workers lined up for a job, very young newspaper vendors, men and women waiting for a bus, workers waiting for instructions, and a little boy leaning on a sign that squints in the sun just as he is shooted.
That's it. Some freelance work for Italian newspapers and magazines but his time is dedicated to running a development and printing activity in Florence. The photos, all his photos, are stored in a cellar and there they remain for almost fifty years. Until last year, when Carnicelli shows his work, thousands of negatives, to the curator and photographer Bärbel Reinhard. It is an electrocution. The photographs of the American trip are ordered and edited critically and finally merged this year in a photographic book entitled "American Voyage" that accompanied the exhibition at the David Hill Gallery in London. Carnicelli no longer has to apologize to America. He never had to. If ever we should be doing it. With him.
Giuseppe Cicozzetti
from “American Voyage”
ph. Mario Carnicelli