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Robert CAPA & John Steinbeck - Diario russo        (HU) (USA)

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DIARIO RUSSO

Uno è tra i massimi esponenti della letteratura americana, punta di riferimento della “Generazione perduta”; l’altro è già una leggenda vivente, un mito che cammina, respira, osserva e fotografa. I due si conoscono già. Entrambi infatti avevano partecipato allo sbarco degli Alleati in Sicilia, al seguito dell’”Operazione Husky”, risalendo lungo la penisola a fianco delle truppe americane. Uno, lo scrittore, è John Steinbeck (1902-1968) e nel 1962 si sarebbe aggiudicato il Premio Nobel per la Letteratura; l’altro, il fotografo, è Robert Capa (1913-1954), e basta questo. A guerra terminata gli Stati Uniti e la Russia, uniti fianco a fianco contro il nemico comune nazista, tornano a guardarsi con sospetto e la distanza che adesso separa le due Nazioni è la stessa che separa la Terra dalla Luna. La guerra di propaganda detta le sue leggi: la Russia è l’Impero del Male (definizione che sarebbe stata cancellata solo molti decenni dopo) ma nessun americano è al corrente di come vivano i Russi, chi sono, che gli succede, se pregano, come lavorino, se piangano o ridano. Niente. Il New York Herald decide che si sveli la cortina, che è ora che qualcuno racconti com’è la vita “dall’altra parte”, e assegna allo scrittore che più e meglio d’altri ha saputo raccontare l’America rurale colpita dalla grande Depressione; per le immagini chiama un Mito, che, parole di Steinbeck, “quando ti fotografa punta alla tua anima”. Steinbeck e Capa. Entrambi hanno più di un motivo per recarsi in Russia, ma per ottenere un visto fu necessario spiegare molto bene le ragioni del viaggio. Ci pensò Capa, come nel suo stile. Di Steinbeck disse “che sarebbe stato un errore ritenere lui un pilastro del proletariato mondiale (…) quanto piuttosto un tipico rappresentante del decadimento dell’Occidente, un decadimento profondo quanto le acque della costa della California”. Di sé, si disse felice di conoscere la gente “che durante la guerra civile in Spagna, con gli aeroplani con la stella rossa cercavano d’abbattere quelli con la svastica”. Al ritorno, dopo quaranta giorni, con centinaia e centinaia di pagine di note e appunti e qualche migliaio di scatti, John Steinbeck e Robert Capa pubblicheranno un libro fondamentale: “Diario russo”. La Russia che si dispiega agli occhi dello scrittore e del fotografo è molto lontana da quel mostro che la propaganda americana aveva creato a uso e consumo domestico. Per la strade di Mosca, così come tra le rovine di Stalingrado e, forse più, nelle campagne georgiane, insieme descriveranno la fierezza d’un popolo resistente alle vessazioni del regime stalinista senza alcun pregiudizio, solo con il desiderio di restituire una voce a quanti l’avevano vista sottratta e rilanciarla nel mondo Occidentale perché si comprendesse che i Russi, in fondo, altro non erano che persone impegnate nella difficile lotta per la vita. Tutto ha il sapore della scoperta, ma Capa è insoddisfatto. In un capitolo del libro, “Un legittimo reclamo”, che Steinbeck dedica alla convivenza con il fotografo e insieme ne fa un ritratto assai veritiero, lo scrittore racconta che Capa si lamentava apertamente della qualità dei suoi scatti perché “centonovanta milioni di russi ce l’hanno con me. Non tengono incontri sfrenati agli angoli delle strade, non praticano uno spettacolare amore libero, non hanno alcun tipo di nuovo look, sono persone giuste, morali, laboriose, per un fotografo noiose come un pezzo di mela”. Invece anche l’ultimo dei suoi scarti avrebbe fatto la felicità di qualunque altro fotografo. Steinbeck scrive. Le sue parole sono intinte nello spirito della compassione, di chi si accosta a una realtà che non conosce e che vuole comprendere fino in fondo, perché anche l’ultima delle parole reca con sé una grande responsabilità. La vita che i due vedono scorrere davanti ai loro occhi è fatta di poche cose. Il lavoro nei campi, un ballo, i momenti del riposo non sono poi molto differenti da quelli che altri reportage ci hanno fatto conoscere e stabiliscono un principio fondamentale, che la gente è la stessa ovunque si trovi e in qualunque condizione viva. Chi tra noi – mi rivolgo a chi ha già qualche anno alle spalle – vedendo queste foto non avverte un senso di famigliarità con i contadini delle nostre terre? Se ne percepiscono le piccole ambizioni, il contentarsi di poco nella consapevolezza che quel poco è già tanto, la vita che scivola via nel tentativo di fermarla, saperla diversa. “Diario russo” è una grandiosa e intima testimonianza. Seppure con le limitazioni imposte dal rigido controllo della macchina sovietica (a Capa fu impedito di fotografare fabbriche e operai, e dovette rinunciare a scattare persino in aree ritenute sensibili dalla censura) il libro è l’ammirevole discesa nei dirupi del pregiudizio, è il farsi largo tra le brume d’un racconto utile solo alla propaganda. Il nemico è di là, tra quei “reds” capaci d’ogni cosa. Ma il nemico non c’è. O forse sì: il nemico è chi costruisce un nemico.

Giuseppe Cicozzetti

da “Diario russo”

John Steinbeck e Robert Capa 

One is among the greatest exponents of American literature, the reference point of the "lost generation"; the other is already a living legend, a myth that walks, breathes, observes and photographs. The two already know each other. In fact, both had participated in the Allied landing in Sicily, following the "Operation Husky", going up the peninsula alongside American troops. One, the writer, is John Steinbeck (1902-1968) and in 1962 he would have been awarded the Nobel Prize for Literature; the other, the photographer, is Robert Capa (1913-1954), and that's enough. At the end of the war the United States and Russia, united side by side against the common Nazi enemy, return to look at each other with suspicion and the distance that now separates the two Nations is the same that separates the Earth from the Moon. The propaganda war dictates its laws: Russia is the Evil Empire (a definition that would have been canceled only many decades later) but no American is aware of how the Russians live, who they are, what happens to them, if they pray, how they work, whether they cry or laugh. Nothing. The New York Herald decides that the curtain will be revealed, that it is time for someone to tell what life is like "on the other side", and assigns to the writer that more and better than others he has been able to tell about rural America struck by the great Depression; for images they call a Myth, which, Steinbeck's words, "when he photographs you he points to your soul". Steinbeck and Capa. Both have more than one reason to travel to Russia, but to get a visa it was necessary to explain the reasons for the trip very well. Capa thought about it, as in his style. Di Steinbeck said "that it would have been a mistake to consider him a pillar of the world proletariat (...) as rather a typical representative of the decay of the West, a decay as deep as the waters of the California coast". Of himself, he said he was happy to meet the people "who during the civil war in Spain tried to shoot down those with the swastika with airplanes with the red star." Upon returning, after forty days, with hundreds and hundreds of pages of notes and notes and a few thousand shots, John Steinbeck and Robert Capa will publish a fundamental book: "A Russian Journal". Russia that unfolds in the eyes of the writer and photographer is very far from that monster that American propaganda had created for domestic use and consumption. On the streets of Moscow, as well as among the ruins of Stalingrad and, perhaps more, in the Georgian countryside, together they will describe the pride of a people resistant to the harassment of the Stalinist regime without any prejudice, only with the desire to return a voice to those who they had seen her stolen and relaunched her in the Western world so that it was understood that the Russians, in the end, were nothing more than people engaged in the difficult struggle for life. Everything has the flavor of discovery, but Capa is dissatisfied. In a chapter of the book, "A legitimate complaint", which Steinbeck dedicates to the coexistence with the photographer and together makes him a very truthful portrait, the writer tells that Capa openly complained about the quality of his shots because "one hundred ninety million Russians there have with me. They don't have unbridled encounters on street corners, they don't practice spectacular free love, they don't have any kind of new look, they are just, moral, hardworking people, for a photographer as boring as a piece of apple”. Instead, even the last of his scraps would have made any other photographer happy. Steinbeck writes. His words are dipped in the spirit of compassion, of those who approach a reality they do not know and who want to understand fully, because even the last of the words carries with them a great responsibility. The life that the two see pass before their eyes is made up of few things. The work in the fields, a dance, the moments of rest are not very different from those that other reports have made us known and establish a fundamental principle, that people are the same wherever they are and in any living condition. Who among us - I ask to those who already have a few years behind them - seeing these photos does not feel a sense of familiarity with the farmers of our lands? We perceive its small ambitions, contenting ourselves with little in the awareness that that little is already so much, life that slips away in an attempt to stop it, to know it differently. "A Russian Journal" is a great and intimate testimony. Although with the limitations imposed by the strict control of the Soviet machine (Capa was prevented from photographing factories and workers, and had to give up shooting even in areas deemed sensitive by the censorship) the book is the admirable descent into the cliffs of prejudice, is the making wide among the mists of a story useful only for propaganda. The enemy is beyond, among those "reds" capable of anything. But the enemy is not there. Or maybe yes: the enemy is someone who builds an enemy.

 

Giuseppe Cicozzetti

from “A Russian Journal”

John Steinbeck e Robert Capa 

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