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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Piergiorgio BRANZI                                                             (Italia) 

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PIERGIORGIO BRANZI

 

Chi non è più giovanissimo, come il sottoscritto, ricorderà i tratti eleganti e il modi garbati di un giornalista che negli anni ’60, ogni sera, dal Telegiornale delle 20 e 30 ci informava delle turbolenze del mondo.

Il suo nome è Piergiorgio Branzi. Pochi però sanno che Branzi, prima di dedicarsi completamente al giornalismo (“non si possono fare bene due mestieri”, ha detto), è stato un fotografo eccellente, uno dei padri della fotografia italiana. Così, poi che l‘allora direttore del Telegiornale Enzo Biagi, lo spedì a Mosca a fare l’inviato, Branzi appese al muro la macchina fotografica e non scattò più.

Il giornalismo acquisì una grande professionalità, ma la fotografia perse un grandissimo interprete. Tuttavia il suo lavoro fotografico, che in parte è presente nelle collezioni dei più grandi musei del mondo, è arrivato a noi conservando intatta la sua forza, ribadendo l’essenza della fotografia stessa, che altro non è che la più potente protesi della memoria collettiva. 

E la memoria dev’essere stata cara a Branzi se negli anni ’50 viaggia l’Italia del sud alla guida di una Lambretta. Obiettivo: fotografare un paesaggio umano non ancora omologato da un consumismo che presto avrebbe cambiato il volto e le aspettative del Paese. Il suo sguardo è laico, certamente condizionato dalla lezione francese di Cartier-Bresson (con cui intrattenne rapporti presto sfociati nella reciproca ammirazione), secondo cui “l’attimo” è la sintesi, ma Branzi aprì il suo interesse a nuove formule espressive, a una ricerca linguistica che andasse oltre la semplice (ma semplice non appaia una diminutio) raffigurazione dell’istantaneo. E dunque non è per caso che stringerà contatti professionali ancorché personali con un grande sperimentatore del linguaggio, Mario Giacomelli.

La fotografia di Branzi è rigorosa. Il suo bianco e nero è nel solco della grande tradizione, a cui Branzi però aggiunge un’essenzialità che sta nelle sue radici, in quella campagna toscana “ove tutto è disegnato” e dove il “segno”, la costruzione visiva, l’architettura formale prevale sul colore. Una storia antica, da quelle parti (papa Sisto IV lamentò a Michelangelo il ritardo dei lavori della famosa Cappella, colpevole, secondo il pontefice, di “indugiare troppo sul disegno, a scapito del colore”), ma oggi come allora ancora così viva da pensare al colore come un accessorio gradevole ma riempitivo. Ma l’umanesimo che trasuda dalle immagini è garbato e rispettosissimo, e nel quale dialoga un razionalismo formale mai disgiunto da una “pietas” in cui affiora talvolta una certa delicata ironia. L’Italia raccontata da Branzi è fatta di piccole cose: un ballo alla Casa del Popolo, bambini al gioco, spiagge non ancora divenute carnaio, paesaggi rurali che ancora risentono delle ferite della guerra. Una testimonianza, in forma d’arte. Un album di famiglia, la nostra.

Ed è con vero piacere che vi invito a ricordare un grande della fotografia italiana.

 

Giuseppe Cicozzetti

foto Piergiorgio Branzi.

 

 

Who is no longer young, as I myself, will remember the elegant features and the gentle ways of a journalist who in the 1960s, every night from the 20,30 tv news, informed us of the turmoil of the world.

His name is Piergiorgio Branzi. Few, however, know that Branzi, before completely devoting himself to journalism ("two jobss can not do well," he said), was an excellent photographer, one of the fathers of Italian photography.

So that then director of the Enzo Biagi news broadcast, sent him to Moscow as envoy, Branzi hung the camera to a wall and did not shoot anymore.

Journalism gained great professionalism, but the photography lost a great performer. However, his photographic work, which is partially present in the collections of the largest museums in the world, has come to us, keeping intact its strength, reiterating the essence of photography itself, which is nothing more than the most powerful prosthesis of collective memory.

And memory had to be dear to Branzi if in the 1950s he traveled south Italy leading a Lambretta. Objective: to photograph a human landscape not yet endorsed by a consumerism that would soon change the face and expectations of the country.

His look is secular, certainly influenced by the French lesson of Cartier-Bresson (with which he had relationships that soon led to mutual admiration), according to which "the moment" is the synthesis, but Branzi opened his interest in new expressive formulas, to a linguistic research that goes beyond the simple (but simple does not appear a diminutive) portrayal of the instantaneous.

It is not by chance that he will strike professional and personal contacts with a great experimentator of language, Mario Giacomelli.

Branzi's photography is rigorous. Its black and white is in the brink of the great tradition, to which Branzi adds an essentiality that lies in his roots, in that Tuscan country "where everything is drawn" and where the "sign", visual construction, architecture formal prevails over color.

Ancient history, from those parts (Pope Sixtus IV complained to Michelangelo about the delay in the works of the famous Chapel, guilty of "lying too much on the design, at the expense of the color"), but today still so alive since think about color as a pleasant but filler accessory.

But the humanism that exudes the images is polite and respectful, and in which it deals with formal rationalism never dissociated from a "pietas" in which sometimes a certain delicate irony emerges. Italy told by Branzi is made of small things: a dance at the “House of People”, children at the game, beaches that have not yet become carnage, rural landscapes still affected by wounds of war. A testimony in the form of art. A family album, ours.

And it is with great pleasure that I invite you to remember a big of Italian photography.

Giuseppe Cicozzetti

ph. Piergiorgio Branzi

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