FOTOTECA SIRACUSANA
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Machiel BOTMAN (Olanda)
MACHIEL BOTMAN
Osservando le fotografie del fotografo olandese Machiel Botman si è subito impressionati da un particolare, da un filo comune che lega insieme l’intero lavoro: l’assenza di qualsivoglia epica. Botman, come vedete, è riluttante alla schiavitù imposta dal soggetto; egli infatti, dimostrando di resistere al richiamo dell’elemento “totemico” della raffigurazione, ribalta la supremazia attrattiva del soggetto sul fotografo stabilendo un nuovo equilibrio, una nuova direzione concettuale in cui è il fotografo a ritagliare per sé il ruolo di “dominus” sui soggetti. Botman fotografa la distratta bellezza del consueto, di un mondo relegato cioè a fare da sfondo ai giorni dell’uomo e che per questo è dimenticato, quasi trasparente agli occhi, privato di qualsiasi contenuto. Quello che vediamo sono piccole cose: la gestualità rubata alla quotidianità femminile, una mano che regge un frammento di vetro, un gatto furtivo tra la neve, paesaggi e dettagli che da soli non avrebbero la forza di imporsi alla nostra osservazione. Tranne per un particolare: il linguaggio. Botman è abile e padroneggia assai bene la cifra stilistica scelta. E in questa narrativa, nella quale i soggetti si ricompensano di contenuti, scorgiamo un lirismo minimale che dialoga in assenza del grandioso e in cui è imprescindibile l’equilibrio formale della composizione. Vedere con nuovi occhi, forse è questa la lezione di Botman. Vedere come non abbiamo mai visto prima, come una specie di educazione visiva, una nuova alfabetizzazione ottica che ci conduce a ri-conoscere cose sepolte sotto l’indifferenza e la distrazione del quotidiano. Una chiamata. Una poetica della normalità. La rivalutazione del consueto sull’epos che, nel disegno di nuove priorità, questo evapora definitivamente e l’osservatore è lasciato a decifrarne gli effetti mentre si impone la consapevolezza che tutto intorno a noi ha una voce, una precisa identità che non attende altro che essere resa visibile. Botman scardina la retorica dell’attimo composto. Non la vuole. La rifiuta: più il soggetto, come si è visto, è colto nella sua sempiterna normalità più è oggetto d’interesse e pronto a essere tradotto in un bianco e nero mai ossessivo, trasportato nel mondo obliquo delle doppie esposizioni o consegnato alle tremolanti evanescenze di un blurred ben dosato. Tutto ha un proprio linguaggio. Tutto. A un poeta – il delicato obiettivo di Botman lo consegna a questa categoria – non resta che tradurlo e offrirlo alla comprensione di ognuno di noi.
Giuseppe Cicozzetti
foto Machiel Botman
Looking at the photographs of the Dutch photographer Machiel Botman we are immediately impressed by a detail, a common thread that binds the whole work together: the absence of any epic.
Botman, as you see, is reluctant to slavery imposed by the subject; in fact, proving to resist the call of the "totemic" element of the representation, he reverses the subject's supremaciveness of attraction on the photographer establishing a new equilibrium, a new conceptual direction in which the photographer carves out the role of "dominus" on subjects.
Botman photographs the distracted beauty of the usual, of a relegated world that is to act as a backdrop to the days of man and that for this reason is forgotten, almost transparent to the eyes, deprived of any content. What we see are small things: the gestures stolen from women everyday life, a hand holding a fragment of glass, a stealthy cat in the snow, landscapes and details that alone would not have the strength to impose itself on our observation.
Except for one particular: language. Botman is skilled and very well mastered the chosen style. And in this narrative, in which the subjects reward themselves with content, we see a minimal lyricism that dialogues in the absence of the grandiose and in which the formal equilibrium of the composition is indispensable.
Seeing with new eyes, perhaps this is Botman's lesson. See how we have never seen before, as a kind of visual education, a new optical literacy that leads us to re-know things buried under the indifference and distraction of everyday life. A call. A poetics of normality. The revaluation of the usual on the epos that, in the design of new priorities, this definitely evaporates and the observer is left to decipher the effects while imposing the awareness that everything around us has a voice, a precise identity that awaits nothing but being visible.
Botman undermines the rhetoric of the compound moment. He doesn’t want it. He refuses it: the more the subject, as we have seen, is caught in its eternal normality the more it is an object of interest and ready to be translated into an obsessive black and white, transported in the oblique world of double exposures or delivered to the flickering evanescences of a well-dosed blurred. Everything has its own language. All. To a poet - the delicate objective of Botman gives it to this category - all that remains is to translate it and offer it to the understanding of each one of us.
Giuseppe Cicozzetti
ph. Machiel Botman