FOTOTECA SIRACUSANA
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SCRIPTPHOTOGRAPHY
Eva BESNYÖ (Ungheria)
EVA BESNYÖ
György Kepes glielo aveva sussurrato come un segreto. Alla giovane talentuosa, che da lì a poco avrebbe seguito quel suggerimento come una chiamata, non restava che assecondare un desiderio che dentro di sé aveva già preso forma: “Se vuoi diventare fotografa” le disse l’artista ungherese “è a Berlino che devi andare”.
1930, Eva Besnyö (1910-2003), figlia di una famiglia della buona borghesia di Budapest fugge al soffocante fascismo ungherese e giunge a Berlino “mentre”, come dirà, “le luci si accendevano”. Qui prende contatti con i connazionali Moholy-Nagy e un giovanotto anch’egli ebreo di poco più giovane, Endre Ernő Friedmann, che conosceremo meglio come Robert Capa. La Berlino di quegli anni, prima cioè del plumbeo orrore nazista, è una città di straordinario fermento culturale in cui le forme espressive dell’arte si intersecano alla ricerca di una sintesi che vede nelle avanguardie russe un punto di riferimento. Eva Besnyö ha fretta e impara presto in un mondo dominato dalla presenza maschile. Da Moholy-Nagy apprende il modernismo delle “Nuove Visioni” adottando l’estetica Bauhuaus, sfruttando a vantaggio descrittivo le sagome astratte generate dalle lunghe ombre; un codice, ben ripetuto nel quale la giovane Eva vi verserà presto la su aspirazione per una fotografia documentaria e, poco più tardi, umanista. Ma fintanto si aggira nello spazio della sperimentazione il suo ruolo è competente. Si guardi a questo proposito il doppio autoritratto con René Ahrlé nel suo studio, essa ci disorienta. Quello che vediamo è un’immagine riflessa su uno specchio posto sul pavimento che a noi, però, appare come un soffitto di vetro e nella quale la forzatura prospettica aggiunge un turbinio veloce, quasi che le figure siano risucchiate da una forza misteriosa e potente. Il soggiorno a Berlino di Eva Besnyö non durerà a lungo; chi ha potuto ha lasciato la Germania per mettersi al riparo dalla furia nazista. L’Europa da lì a poco cadrà nel fuoco di una guerra sanguinosa. Eva, dopo un breve ritorno in Ungheria, si stabilisce in Olanda. Definitivamente. Ma è ebrea e dopo la resa del governo olandese le sarà vietato di partecipare a ogni attività giornalistica e, poco più tardi, a causa delle persecuzioni, darà costretta a nascondersi, vivendo due anni in clandestinità. Sopravviverà e non lascerà più l’Olanda. Lei, non le sue fotografie. Infatti nel 1955 Edward Steichen la invita a prendere parte a “The Family of Man”, la “madre di tutte le mostre”, al MoMa di New York. E’ la consacrazione. La sua fotografia è fatta di molte cose, di presenze moderniste come di sentori descrittivi declinati in un umanesimo che sarebbe stata la fortuna di molti fotografi a venire e di accenni che più tardi sarebbero – magari involontariamente – stati attribuiti ad altri (si pensi agli autoritratti, osservandoli ribaltano la primogenitura sbilenca che di solito viene attribuita a Maier). Quello di Eva Besnyö è un mondo in cui il rigore formale delle linee, il protagonismo delle ombre, le visioni dall’alto declinano quasi inevitabilmente, lentamente verso una fotografia più attenta ai contenuti e dove la ricerca estetica (si guardi la fotografia della ragazza sdraiata alla finestra) sollecita morbidissime allusioni in cui è bello sostare a indugiare. La “signora della fotografia olandese”, com’è stata definita, ha imparato a insegnare, la sua fotografia è prodromica, e i cui lampi si avvertono nitidi nella fotografia contemporanea come una tempesta notturna.
Giuseppe Cicozzetti
foto Eva Besnyö
György Kepes had whispered to her like a secret. The young talented girl, who would soon follow that suggestion as a call, had only to satisfy a desire that had already taken shape within her: "If you want to become a photographer", the Hungarian artist told her "you have to go to Berlin".
1930, Eva Besnyö (1910-2003), daughter of a family of the Jewish bourgeoisie of Budapest flees to the suffocating Hungarian fascism and arrives in Berlin "while", as she will say, "the lights were turned on". Here she makes contact with fellow countrymen Moholy-Nagy and a young man who is a slightly younger and Jew like her, Endre Ernő Friedmann, whom we will know better as Robert Capa.
The Berlin of those years, that is, before the leaden Nazi horror, is a city of extraordinary cultural ferment in which the expressive forms of art intersect in the search for a synthesis that sees in the Russian avant-gardes a point of reference. Eva Besnyö is in a hurry and learns quickly in a world dominated by male presence. From Moholy-Nagy she learned the modernism of the "New Visions" by adopting the Bauhuaus aesthetic, taking advantage of the abstract shapes generated by the long shadows to the descriptive advantage; a code, well repeated in which the young Eva will soon pay you the aspiration for a documentary photography and, a little later, a humanist.
But as long as she wanders in the space of experimentation his role is competent. In this regard, look at the double self-portrait with René Ahrlé in his studio, it disorientates us. What we see is an image reflected on a mirror placed on the floor that to us, however, looks like a glass ceiling and in which the perspective forcing adds a swirling fast, as if the figures are sucked by a mysterious and powerful force. Eva Besnyö's stay in Berlin will not last long; those who have left Germany to get away from Nazi fury. Europe will soon fall into the fire of a bloody war.
Eva, after a brief return to Hungary, settled in the Netherlands. Definitely. But she is Jewish and after the surrender of the Dutch government will be forbidden to participate in any journalistic activity and, a little later, because of persecution, will force her to hide, living two years in hiding. He will survive and will no longer leave Holland. She, not her photographs. In fact, in 1955 Edward Steichen invited her to take part in "The Family of Man", the "mother of all exhibitions" at the MoMA in New York. It’s the consecration.
His photography is made of many things, of modernist presences as of descriptive hints declined in a humanism that would have been the fortune of many coming photographers and of hints that would later - perhaps involuntarily - be attributed to others (think of self-portraits observing them they overturn the lopsided primogeniture that is usually approached to Maier).
Eva Besnyö's is a world in which the formal rigor of the lines, the protagonism of the shadows, the visions from the top almost inevitably decline, slowly towards a more attentive photography and where aesthetic research (look at the photograph of the girl lying down) at the window) urges very soft allusions in which it is nice to stop and linger. The "Lady of Dutch photography", as she has been defined, has learned to teach, her photography is prodromal, and whose flashes are clear in contemporary photography like a night storm.
Giuseppe Cicozzetti
ph. Eva Besnyö