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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Anneke BALVERT                                                                          (Olanda) 

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ANNEKE BALVERT

C’è un tipo d’oscurità che non dobbiamo temere. Ha scritto Saramago che “noi scrittori e artisti lavoriamo nelle tenebre, e come ciechi soppesiamo l’oscurità”. Tra le ombre, con le sue lunghe dita nere, l’oscurità affonda nel pulviscolo immateriale del mistero; e non c’è nessun mistero che non desideri essere svelato. Di quella pena, “che delle menti ottunde il pensiero e al macero conduce l’uomo”, che si avvita l’anima su se stessa come il velo d’una nera sposa la fotografa olandese Anneke Balvert ne descrive i rivoli che si articolano su giorni che sanno farsi bui come la notte più oscura. I luoghi più inaccessibili sono quelli che conosciamo meglio ed avendone coscienza li custodiamo perché nessuno vi si introduca. Ma le sue pareti sono di vetro, le mura trasparenti: il turbamento ama essere riconosciuto. E noi lo vediamo in ognuno dei lavori di Balvert. Si tratti d’una ritrattistica che nell’espressionismo cerca nella “traduzione” intimistica una sua risoluzione – i ritratti, quasi tutti al femminile svelano l’attenzione della fotografa per un universo che di genere ha solo i soggetti – o di una paesaggistica chiusa nello spazio angusto dell’onirico, le fotografie delle serie proiettano su chi le osserva come l’invito a lasciarsi trapassare da un cono d’ombra radente e fitto come le stesse boscaglie in cui le suggestioni si offrono come interpreti di un linguaggio sconosciuto di cui però, altrettanto misteriosamente, riconosciamo l’eco, segno che da qualche parte dentro noi quella “luce che non rischiara” si è già fatta largo. E ci parla. I volti di “Female project”, la cui ambiguità obliqua e pensante introduce a “People”, ci sfidano a una decodifica, come se lo stabilirsi di una “semantica fisiognomica” ci chiamasse a una partecipazione non solo visiva. Così, più tardi, è nell’esplicitazione di corpi colti un in movimento fermo, statico, nell’urlo muto di “People” che veniamo precipitati nello stesso turbamento ben disposto dalla fotografa e la cui risposta è bene interpretata dai soggetti. Pensosa è la malinconia, assai più della leggerezza ed è tra le sue pieghe che occorre frugare perché l’immaginazione lavora meglio nell’oscurità che in piena luce. Ma tutto ha sua grazia, una specie di leggero pudore che noi salutiamo come una ventata di rispettoso riguardo. Balvert accenna, abbozza, lasciando all’osservazione la libertà di penetrare in profondità. E ognuno ha la propria da raggiungere, anche se si tratta di aggirarsi tra le alture boscose di “Landscape”. Qui Lewis Carroll si sarebbe attardato in un racconto neo gotico nel quale i sui personaggi avrebbero conversato amabilmente con quelli di Henry D. Thoreau, tra le brume scoscese come una confessione. “Landscape” è uno specchio deformante: ciò che sembriamo conoscere, o ciò che risulta noto alla nostra percezione, si ribalta in un gioco di allusioni, dilagando per creare come una cartografia dell’irreale in cui la metafora si rivela assai più essenziale di ogni tensione descrittiva. Volti, dunque, paesaggi. Non c’è ambito in cui il mistero, l’oscurità non proietti la sua ombra. Noi non possiamo che decifrarne i segni e, in questa direzione, i lavori di Anne Balvert ci consegnano un Atlante dell’Inconosciuto, un compendio che ne intercetta le articolazioni, perché conoscere la proprie oscurità è la chiave per conoscere le tenebre degli altri

 

Giuseppe Cicozzetti

Da “Female project”; “People”; “Landscape”

 

foto Anneke Balvert

 

https://www.annekebalvert.com/

 

 

There’s a kind of darkness that we must not fear. Saramago wrote that "we writers and artists work in the darkness, and as blind we weigh the darkness".

Among the shadows,with its long black fingers, the darkness sinks into the immaterial dust of the mystery; and there is no mystery that does not want to be unveiled.

Of that pain, "that the mind dulls the thought and the pulverizer leads the man", that the soul is screwed on itself as the veil of a black bride the Dutch photographer Anneke Balvert describes the rivulets that are articulated on days that know how to become dark like the darkest night. The most inaccessible places are those that we know best and by being aware of them we guard them so that nobody can get into them.

But its walls are made of glass, the walls transparent: the disturbance loves being recognized. And we see it in each of Balvert's works. It is a portraiture that in expressionism seeks in its intimacy "translation" its resolution - the portraits, almost all of them feminine, reveal the photographer's attention to a genre that only has subjects - or a landscape closed in the narrow space of the oneiric, the photographs of the series project on those who observe them as an invitation to let themselves pass through a thick and dense shadow like the same woods where the suggestions are offered as interpreters of an unknown language but of which , just as mysteriously, we recognize the echo, a sign that somewhere within us that "light that does not shine" has already found its way.

And its speaks to us. The faces of "Female project", whose oblique and thinking ambiguity introduces to "People", challenge us to a decoding, as if the establishment of a "physiognomic semantics" called us to a participation not only visual. So, later, it is in the explication of bodies caught a steady, static movement, in the silent scream of "People" that we are precipitated in the same disturbance well prepared by the photographer and whose answer is well interpreted by the subjects. The melancholy is thoughtful, much more than lightness and it’s among its folds that it is necessary to rummage because the imagination works better in the darkness than in full light.

But everything has its grace, a kind of modesty that we salute as a wind of respectful regard. Balvert mentions, sketches, leaving the freedom to penetrate deep into the observation. And everyone has their own to reach, even if it is to wander through the wooded hills of "Landscape". Here Lewis Carroll would linger in a neo-Gothic tale in which his characters would converse amiably with those of Henry D. Thoreau, among the mists as a confession.

"Landscape" is a deforming mirror: what we seem to know, or what is known to our perception, is reversed in a game of allusions, spreading to create a cartography of the unreal in which the metaphor proves to be much more essential than any descriptive tension. Faces, therefore, landscapes. There is no area in which mystery, darkness does not project its shadow. We can not but decipher the signs and, in this direction, the works of Anne Balvert give us an Atlas of the Unknown, a compendium that intercepts the joints, because to know one's own darkness is the key to know the darkness of others.

 

Giuseppe Cicozzetti

from “Female project”; “People”; “Landscape”

 

ph. Anneke Balvert

 

https://www.annekebalvert.com/

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