FOTOTECA SIRACUSANA
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LA STORIA DI UN ARTISTA DUE VOLTE MIGRANTE
Veronica Tomassini - Il Fatto Quotidiano - 3 settembre 2018
[…] Giuseppe aveva appena compiuto un anno. Partirono con una grande nave da Trieste, arrivarono dopo molti giorni, estenuanti giorni, di viaggio in mare, nel porto di Durban. Il Sudafrica era una landa immensa, praterie, giardini coltivati, poteva essere un Eldorado, e lo fu per la famiglia.
Giuseppe viveva in una casa coloniale inglese, la donna che aiutava in casa era una zulù, portava il figlio con sé. Era nero. Erano ancora anni di scontri e di segregazioni razziali. Giuseppe era bianco e giocava con il bambino nero. I recinti non sono un problema per i bambini, sono paranoie degli adulti. Con le dovute eccezioni, tuttavia.
Il padre di Giuseppe era diventato un costruttore, la loro bella casa confinava con la casa dei boeri, degli africans, i bianchi del Sudafrica. Compagnia molto selettiva, Giuseppe ne restava fuori, di solito. Lui per gli africans (che in definitiva è un idioma di origine fiamminga e per estensione indica la provenienza geografica e il colore della pelle) era “l’italiano che mangiava spaghetti e lumache”. E giù risate per questo, risate da far digrignare i denti a un bambino che non avrebbe capito subito e forse non ancora, da adulto, il sistema efferato e classista di quella civiltà anglosassone ed emancipata, ma che evidentemente preferiva distinguere, cioè la distinzione alla globalità.
C’era la scuola per gli italiani, i greci, gli spagnoli, gli europei; indossavano divise verdi, con l’ape ricamata nel taschino sul petto. C’era la scuola per gli asiatici, divise di un altro colore. La scuola per gli africans. I bianchi del Sudafrica. Giuseppe ricorda la casa coloniale di Harting street.[…]
[…] Giuseppe non ha la consapevolezza delle radici, come un globetrotter non ha smesso di cercare, senza in fondo voler trovare la sua terra. Ogni artista nutre la propria inquietudine. Così anche Giuseppe. Nell’atelier espone le opere degli ultimi cicli su cui ha lavorato, Love street e The tribe, le prime sono texture di volti femminili, il secondo ciclo invece riguarda le maschere che realizza con colori acrilici, smalti, collage. I suoi quadri parlano di spaesamento, separazione, inesplicabilità. L’africanitudine è una condizione dello spirito, in Occidente siamo costretti a chiamarla solitudine. Ma gli africans erano un’altra cosa. Su tutto sovrintendeva il pregiudizio, né più né meno che mezzo secolo dopo il viaggio in mare di Giuseppe. Non è un peccato distinguersi, non è una colpa, naturalmente. Ma tanto è, tanto è stato.
Archivio famiglia Piccione - Siracusa
THE STORY OF A TWICE MIGRANT ARTIST
Veronica Tomassini - Il Fatto Quotidiano - 3 settembre 2018
[...] Giuseppe had just turned one year old. They left with a large ship from Trieste, arrived after many days, exhausting days, of traveling by sea, to the port of Durban. South Africa was an immense heathland, grasslands, cultivated gardens, it could be an Eldorado, and it was for the family.
Giuseppe lived in an English colonial house, the woman he helped in the house was a Zulu, he brought his son with him. It was black. Those were still years of clashes and racial segregations. Giuseppe was white and played with the black boy. Fences are not a problem for children, they are paranoia of adults. With due exceptions, however.
Giuseppe's father had become a builder, their beautiful home bordered the home of the Boers, the africans, the whites of South Africa. A very selective company, Giuseppe usually stayed out of it. He for Africans (who is ultimately an idiom of Flemish origin and by extension indicates the geographical origin and color of the skin) was "the Italian who ate spaghetti and snails". And down laughter for this, laughter to grind the teeth of a child who would not have understood immediately and perhaps not yet, as an adult, the heinous and class system of that Anglo-Saxon and emancipated civilization, but who evidently preferred to distinguish, that is, the distinction to the globality.
There was a school for Italians, Greeks, Spaniards, Europeans; they wore green uniforms, with the bee embroidered in the breast pocket. There was a school for Asians, divided in another color. The school for africans. The whites of South Africa. Giuseppe remembers the colonial house on Harting street. […]
[...] Giuseppe has no awareness of the roots, as a globetrotter has not stopped looking, without wanting to find his land. Each artist has his own concern. So also Joseph. In the atelier he exhibits the works of the last cycles on which he has worked, 'Love street' and 'The tribe', the first are textures of female faces, the second cycle instead concerns the masks he creates with acrylic colors, enamels, collages. His paintings speak of disorientation, separation, inexplicability. Africanicitude is a condition of the spirit, in the West we are forced to call it solitude. But africans were another matter. The prejudice oversaw everything, no more or less than half a century after Joseph's voyage to the sea. It is not a sin to stand out, it is not a fault, of course. But so much, so much has been.